Combattere il cancro con Darwin

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Il cancro come ecosistema in evoluzione Non cellule “impazzite”, ma entità biologiche che si adattano, competono e si trasformano in risposta alle pressioni selettive dell’ambiente. L’approccio darwiniano alla terapia oncologica propone strategie flessibili, capaci di modulare l’intervento in base alla direzione evolutiva del tumore, invece di puntare all’eradicazione assoluta

Negli ultimi decenni, la lotta contro il cancro ha fatto passi da gigante. Grazie alla diagnosi precoce e a terapie sempre più mirate, oggi milioni di pazienti vivono più a lungo e, in molti casi, guariscono. Negli anni ’70 la sopravvivenza a cinque anni era intorno al 58%; oggi supera l’85%. Tuttavia, il cancro resta una delle principali cause di morte nel mondo, con circa 10 milioni di decessi ogni anno. La battaglia, dunque, continua.

Il cancro è una malattia causata da cellule che, generalmente per effetto di mutazioni genetiche, perdono i freni che normalmente ne regolano la crescita e iniziano a moltiplicarsi senza controllo. Queste cellule “impazzite” possono invadere i tessuti sani dell’organismo diffondendosi in altre parti del corpo sotto forma di metastasi. Le terapie classiche, come la chemio e la radioterapia, puntano a colpire proprio queste cellule che si dividono più rapidamente delle altre.

Nella maggioranza dei casi, la crescita del tumore in sé non è il problema principale. Solo il 10% dei pazienti muore per effetti diretti sul tessuto ospitante; molte persone convivono con masse tumorali anche voluminose. Le criticità derivano principalmente da due fattori: la produzione di sostanze tossiche e la resistenza alle terapie.

Le cellule tumorali (e anche alcune cellule normali che reagiscono alla loro presenza) rilasciano nel sangue molecole che, pur avendo normalmente funzioni fisiologiche, possono diventare dannose in contesti patologici. Tra queste vi sono citochine, proteasi e altri mediatori bioattivi, che in condizioni tumorali possono contribuire a effetti sistemici gravi come la perdita di peso e muscolatura (cachessia), la formazione di coaguli (trombosi) e il dolore, in particolare in presenza di metastasi ossee. Questi effetti rappresentano una delle principali cause di mortalità nei pazienti oncologici.

Il secondo gravissimo problema è la resistenza alle terapie. I farmaci che bloccano la divisione cellulare delle cellule tumorali sono infatti generalmente molto efficaci nelle fasi iniziali ma, col passare del tempo, lo diventano assai meno, perché le cellule tumorali acquisiscono una resistenza che le rende progressivamente sempre meno sensibili alla loro azione. Ed è proprio sul fronte della resistenza alla terapia che si gioca la partita decisiva nella lotta al cancro. Ed è su questo fronte che la biologia evoluzionistica promette interessanti soluzioni.

L’evoluzionismo ha cambiato da tempo il paradigma di interpretazione del cancro e, adesso, sta influenzando anche il modo di curarlo.

L’approccio evoluzionistico al cancro non è nuovo, essendo nato negli anni settanta del secolo scorso. Esso interpreta il tumore non come una semplice crescita anomala di cellule “impazzite”, ma come un processo guidato da complesse dinamiche darwiniane che si svolgono all’interno del nostro organismo. In questa ottica le cellule tumorali sono viste come oggetti in grado di modificarsi, competere e adattarsi proprio come fanno gli organismi in un ecosistema.

Uno dei primi e più influenti studi sull’approccio evoluzionistico al cancro è “The clonal evolution of tumor cell populations“, pubblicato su Science nel 1976. In questo lavoro, Peter Nowell propose la teoria dell’evoluzione clonale, secondo cui i tumori originano da una singola cellula mutata, che si evolve accumulando alterazioni genetiche vantaggiose per la crescita. Per la prima volta, il cancro non veniva visto come una massa uniforme e statica, ma come un sistema dinamico in continua trasformazione. Oggi, numerose evidenze supportano questa tesi, tanto che il tumore è ormai considerato una vera e propria “malattia darwiniana”.

Il primo evento molecolare che conduce al cancro è la comparsa in una cellula di una (o più) mutazioni genetiche che la rendono svincolata dall’ambiente che la circonda e le permettono di moltiplicarsi molto rapidamente. Questo evento rompe una regola fondamentale degli organismi pluricellulari. In condizioni normali, infatti, una cellula che perde i contatti con le cellule vicine va incontro a morte programmata. Questo “suicidio” cellulare serve a proteggerci perché elimina quelle cellule che, avendo perso i vincoli funzionali che le legano alle altre, risulterebbero inutili o dannose per l’intero organismo. Ma la cellula tumorale elude questo meccanismo e continua a moltiplicarsi. Questo fenomeno può essere assimilato alla comparsa, in un ambiente naturale, di una potenziale nuova specie, cioè di un’entità biologica dotata di tratti distintivi che la separano geneticamente e funzionalmente dal contesto di origine.

Proprio come una nuova specie che appare in un ecosistema naturale, la cellula tumorale deve affrontare l’ambiente in cui si trova. Questo microambiente rappresenta un ecosistema locale, cioè un’unità funzionale fatto di altre cellule, proteine, strutture extracellulari che interagiscono tra loro attraverso flussi di energia e cicli di materia. E come ogni specie in natura, anche la cellula tumorale può avere successo o fallire a seconda delle sue caratteristiche e delle pressioni ambientali che riceve. Non sappiamo con precisione quante volte in un organismo nascano cellule potenzialmente tumorali. Sappiamo però che non avviene raramente, come scoperto dal riscontro, in tessuti perfettamente normali, di cellule con mutazioni potenzialmente cancerogene. Questo ci induce a pensare che in molti casi l’ecosistema locale è in grado di contenere l’espansione di queste nuove specie.

Ma, in alcuni casi, le cellule tumorali riescono a sopravvivere, adattarsi, moltiplicarsi e formare un tumore vero e proprio.

L’ecosistema locale dove stanno avvenendo questi fenomeni non vive poi in maniera isolata, ma fa parte di una biosfera più ampia che è costituita dall’intero organismo del paziente. In questa visione la rottura degli equilibri interni di un ecosistema locale può portare a scompensi a distanza in altri ecosistemi della stessa biosfera. In altre parole, le tossine prodotte dal tumore agiscono a distanza nell’organismo proprio come le sostanze inquinanti scaricate in un fiume, alterando l’ecosistema locale, possono riuscire a produrre danni anche a grande distanza.

Nel loro ecosistema locale, le cellule devono superare tantissimi problemi legati a barriere fisiche, scarsità di nutrienti, mancanza di ossigeno e attacchi del sistema immunitario. Anche la terapia stessa è un potente agente selettivo, colpendo specificamente le cellule che si riproducono più velocemente. Solo le cellule capaci di superare questi ostacoli sopravviveranno e si moltiplicheranno. In natura quando ciò avviene e un organismo riesce a superare indenne le selezioni, si parla di “salvataggio evolutivo”. Nella visione evoluzionistica quindi, combattere il cancro significa sostanzialmente bloccare i suoi tentativi di salvataggio evolutivo.

Le cellule tumorali posseggono, purtroppo, molti strumenti per poter operare questi salvataggi evolutivi. Il primo consiste nell’eterogeneità genetica del tumore, cioè il fatto che le cellule tumorali non sono identiche tra loro. L’osservazione di questo tipo di salvataggio evolutivo è frequente negli ecosistemi naturali. Un esempio è la farfalla blu di Melissa (Lycaeides melissa). Quando l’erba medica (Medicago sativa) venne introdotta dall’uomo come coltura foraggera, alcune popolazioni della farfalla iniziarono a usare questa nuova pianta ospite. Purtroppo però essa conteneva composti tossici per le larve. Le farfalle riuscirono ad adattarsi a questo nuovo ambiente grazie al fatto che nella popolazione originaria delle farfalle era presente una minoranza di individui con varianti genetiche in geni associati alla disintossicazione. Questa sottopopolazione, sottoposta a pressione positiva, divenne quindi maggioritaria tra le farfalle.

Nei tumori succede qualcosa di simile. All’interno di una stessa massa tumorale, infatti, coesistono molte sotto-popolazioni cellulari con caratteristiche differenti. Questa diversità genetica è un vero e proprio serbatoio evolutivo da cui possono emergere cellule più resistenti, più mobili, o più capaci di eludere il sistema immunitario. Quando un agente selettivo mette in crisi un determinato tipo di cellula tumorale, è probabile che all’interno della massa esistano già cellule resistenti a quella selezione che quindi possono rimpiazzare le cellule sensibili. Ad esempio, alcuni tumori polmonari reagiscono assai bene inizialmente ad alcuni farmaci della classe degli inibitori della tirosin-chinasi. Tuttavia, dopo un periodo di remissione, quasi sempre si verifica una recidiva tumorale. È stato dimostrato che la recidiva è dovuta proprio alla selezione positiva su cloni cellulari preesistenti nella massa originaria.

In che maniera queste osservazioni possono suggerire nuovi approcci terapeutici?

Una prima possibilità che si sta sperimentando è quella di non porsi come obiettivo terapeutico la completa eradicazione di tutte le cellule tumorali ma permettere (e anzi favorire) le normali dinamiche selettive nel microambiente tumorale. In altre parole, invece di sparare a zero sulle cellule sensibili, favorendo di fatto involontariamente quelle resistenti, si provvede ad adoperare un trattamento dinamico che adatta il dosaggio e la tempistica dei farmaci in base alla risposta del tumore, alternando periodi di trattamento e periodi di sospensione. Studi clinici, ad esempio nel tumore della prostata, hanno mostrato che questa strategia può prolungare la sopravvivenza e ritardare la resistenza.

Ma si può fare anche di più. E lo si può fare sfruttando un altro principio dell’evoluzionismo e cioè quello del “doppio legame evolutivo”. Si determina un doppio legame evolutivo quando l’adattamento a una pressione selettiva rende l’organismo più vulnerabile a un’altra. Una specie di “dalla padella alla brace” evoluzionistico. Ad esempio, alcune lucertole (Anolis sagrei) in presenza di predatori terrestri come i serpenti si rifugiano più spesso sugli alberi. Questo comportamento, però le espone maggiormente ai predatori aerei (come i rapaci), generando un doppio legame per cui per evitare un predatore ci si espone all’altro. In ambito tumorale è possibile riscontrare una situazione analoga nel cancro della mammella. In taluni casi dopo somministrazione di una chemioterapia tradizionale (es. doxorubicina), si ha riduzione della massa ma, purtroppo, anche selezione di cellule resistenti. Si è osservato però che le cellule sopravvissute aumentano l’espressione di enzimi che le rendono sensibili a un altro farmaco (il disulfiram, un vecchio farmaco contro l’alcolismo). Risultato: il secondo farmaco è più efficace proprio sulle cellule che hanno resistito al primo, creando un “doppio legame”: se le cellule si adattano alla prima terapia, diventano vulnerabili alla seconda.

Purtroppo l’eterogeneità genetica non è il solo modo per una cellula tumorale per operare il suo salvataggio evolutivo. Un’altra potente arma a sua disposizione è la plasticità fenotipica. Con questo termine si intende la capacità di un organismo di modificare il proprio fenotipo in risposta a cambiamenti ambientali, senza alterazioni del genotipo. Essa è ampiamente basata su modificazioni reversibili del DNA che vanno sotto il nome di modificazioni epigenetiche. Esse consistono in cambiamenti chimici che avvengono sul DNA o sulle proteine che lo avvolgono, e che regolano l’attività dei geni senza alterarne la sequenza.

Un tipo particolare di plasticità fenotipica è la dormienza. Con questo termine si indica quella strategia adattativa per cui un organismo sospende temporaneamente le proprie attività metaboliche, di crescita o di sviluppo per sopravvivere a condizioni ambientali avverse. Questo meccanismo aumenta le probabilità di sopravvivenza a lungo termine e favorisce la riproduzione in momenti più favorevoli. Un esempio famoso di dormienza è l’ibernazione, cioè quello stato fisiologico di depressione metabolica profonda e regolata, adottato da alcuni animali per sopravvivere a condizioni ambientali difficili. Ad esempio studi sulla dormienza nello scoiattolo delle tredici linee (Ictidomys tridecemlineatus) che si iberna durante l’inverno, hanno dimostrato che essa è dovuta a meccanismi epigenetici.

Anche le cellule tumorali possono andare in dormienza, sopravvivendo in uno stato metabolicamente inattivo o a proliferazione estremamente rallentata, resistendo così alle terapie e rimanendo “nascoste” nell’organismo per anni o decenni prima di eventualmente riattivarsi e causare recidive. In alcuni casi è stato dimostrato che anche le cellule tumorali usano meccanismi epigenetici per “silenziare” geni pro-proliferativi e attivare geni di sopravvivenza, rendendo la dormienza un adattamento dinamico estremamente efficace e pericoloso.

La plasticità fenotipica e i segnali del microambiente sono cruciali anche per altre fasi dello sviluppo di un tumore come la capacità di sviluppare metastasi e la resistenza all’immunoterapia.

Anche dalla “dormienza” si possono ricavare utili suggerimenti per la terapia. In particolare si stanno sperimentando due approcci terapeutici, apparentemente opposti. Il primo è orientato a forzare la riattivazione delle cellule dormienti per poterle poi distruggere con i farmaci tradizionali. Il secondo è esattamente il contrario, mirando a prolungarne indefinitamente la quiescenza. In ogni caso l’effetto cercato è quello di prevenire la recidiva e aumentare la sopravvivenza dei pazienti.

In conclusione, la visione evoluzionistica sta cambiando il modo in cui pensiamo la terapia del cancro: non più come una guerra lampo contro un nemico statico, ma come una coesistenza gestita nel tempo con un avversario che cambia, si adatta, muta. È un cambio di paradigma che implica non solo nuovi farmaci, ma anche nuovi criteri per decidere dosi, tempi e combinazioni terapeutiche.

In questo cambio di paradigma non basta solo sapere “che cosa” è un tumore in un dato momento, ma occorre capire “in che direzione” sta andando. Per questo si stanno sviluppando approcci che monitorano continuamente le mutazioni, le risposte alle terapie e le dinamiche del microambiente tumorale. Naturalmente, applicare questa visione richiede strumenti nuovi. Servono modelli matematici e computazionali per simulare l’evoluzione del tumore. Servono metodi diagnostici in grado di seguire in tempo reale i cambiamenti genetici e ambientali della malattia. Servono team interdisciplinari dove oncologi, biologi evoluzionisti, matematici e bioinformatici lavorino insieme.

Per certi versi la biologia evoluzionistica offre anche una lezione di umiltà. Ci insegna che la complessità non si governa facilmente con soluzioni semplici. I tumori non sono entità monolitiche, ma comunità cellulari dinamiche, che cambiano nel tempo e nello spazio. Cercare di annientarle tutte in un colpo solo spesso non funziona. A volte è più efficace rallentare, modulare, accompagnare i processi evolutivi invece di opporvisi frontalmente.

Ovviamente questa prospettiva non esclude le terapie convenzionali, ma le integra in una visione più ampia. La chemioterapia, la radioterapia, l’immunoterapia restano strumenti fondamentali, ma il loro uso può essere ottimizzato alla luce di una comprensione più profonda delle regole evolutive che governano il comportamento del tumore.

Guardare al cancro con gli occhi dell’evoluzione significa riconoscerne la logica interna, per quanto spietata. Significa capire che ogni intervento seleziona un nuovo assetto cellulare. Significa che non basta colpire forte: bisogna colpire bene, al momento giusto, nel contesto giusto.

Bibliografia essenziale

Nowell, P.C., 1976. The clonal evolution of tumor cell populations. Science 194, 23–28.

Pienta, K.J., Goodin, P.L., Amend, S.R., 2025. Defeating lethal cancer: Interrupting the ecologic and evolutionary basis of death from malignancy. CA Cancer J Clin.

Savy, T., Flanders, L., Karpanasamy, T., Sun, M., Gerlinger, M., 2025. Cancer evolution: from Darwin to the Extended Evolutionary Synthesis. Trends in Cancer

Immagine in apertura: National Institutes of Health, Public domain. Creator: Alex Ritter, Jennifer Lippincott Schwartz, and Gillian Griffiths