Conservare la megafauna per conservare gli ecosistemi: la lezione del passato
Come cambierebbe il mondo se i grandi mammiferi scomparissero? Una recente ricerca ci aiuta a far luce su questo enigma, indagando le conseguenze a breve e lungo termine della perdita di megafauna nel tardo pleistocene in Nord America
“I mammiferi di grandi dimensioni svolgono ruoli ecosistemici insostituibili e non replicabili dai mammiferi di piccola taglia”.
È quanto si legge su un autorevole studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), che ci mette in guardia dal rischio che stiamo correndo nel mettere in ginocchio le popolazioni di mammiferi, specialmente di grandi dimensioni. Questi si trovano molto spesso al vertice della piramide ecologica, influenzando in diversi modi le abitudini alimentari e le dinamiche di dispersione delle specie con cui condividono l’habitat.
Quando parliamo di megafauna ci riferiamo solitamente a mammiferi che superano i 44 kg di peso. Dal tardo Pleistocene a oggi, il mondo ha perso l’85% dei mammiferi, molti dei quali di grandi dimensioni. Sicuramente la mano dell’uomo ha pesato su questa perdita più di quanto non abbia fatto il clima.
La scomparsa della megafauna
Prima di allora, l’estinzione del quaternario, che si considera tra i 50.000 e i 10.000 anni fa, ha segnato la scomparsa di buona parte della megafauna mondiale. Tra i più noti rappresentanti del genere il mammut, che poteva pesare tra le 6 e le 8 tonnellate, in casi eccezionali 12. Ma non era solo. Per lungo periodo la neonata umanità di cacciatori-raccoglitori ha predato la megafauna di tutto il mondo, facendola collassare. Una di queste prede fu l’antenato dell’attuale vombato australiano (Diprotodon). A differenza del wombat, marsupiale che pesa tra i 20 e i 30 kg, il Diprotodon pesava certamente più di 100 kg e aveva un’altezza media di 1,8 metri.
Per comprendere quale possa essere l’impatto dell’attuale declino della megafauna per cause antropiche, il gruppo di ricerca guidato da Felisa A. Smith (Università del New Mexico), ha indagato le conseguenze a breve e lungo termine dell’estinzione del quaternario, analizzando il record fossile del tardo Pleistocene in corrispondenza dell’Altopiano di Edwards, nel Texas centro-occidentale.
In particolare, i ricercatori si sono concentrati su due parametri: la nicchia isotopica e la taglia corporea. A differenza della nicchia ecologica, la nicchia isotopica permette di ricostruire la rete alimentare di un determinato ecosistema del passato, essendo gli isotopi di carbonio un’utilissima firma lasciata dalle prede e dai predatori all’interno di una dieta. Con questo metodo è dunque possibile capire come si è alterata la catena trofica indipendentemente dalle variazioni ecologiche.
I risultati della ricerca
La ricerca ha mostrato che la fauna dell’Olocene è ampiamente differente da quella che precedette l’estinzione della megafauna del quaternario, in particolare per la sua funzione ecologica e le dimensioni corporee. Complessivamente, si legge nella ricerca, dall’inizio dell’Olocene a oggi la dimensione corporea si è notevolmente ridotta.
Dallo studio emerge che la scomparsa dei grandi mammiferi ha provocato uno slittamento delle specie all’interno della catena trofica e una progressiva riduzione della taglia come conseguenza delle diverse abitudini alimentari e della nuova nicchia ecologica che alcune specie sono riuscite a ritagliarsi.
La conseguenza più grave, al di là della già grave perdita di biodiversità, è che l’assenza di megafauna ha lasciato nicchie ecologiche vuote. Mentre nel caso degli erbivori gli spazi rimasti vuoti non furono rimpiazzati, senza gravi conseguenze, la perdita di complessità dei mammiferi carnivori (solitamente predatori apicali) si ripercosse sull’intera catena trofica di quell’area, alterando profondamente le abitudini alimentari dei carnivori e dei generalisti sopravvissuti e provocando uno slittamento nello sfruttamento delle risorse. Ne deriva dunque una perdita di complessità ecologica, ovvero di diversità in termini di specie animali e vegetali e la conseguente alterazione dei cicli bio-fisico-chimici, che può portare al collasso un intero ecosistema.
A partire da 10.000 anni fa si è infatti registrata una drastica riduzione delle interazioni biologiche e gli ecosistemi sono diventati via via più omogenei e meno diversificati, con conseguenze gravissime sulla loro tenuta e la capacità di rigenerarsi.
Un ulteriore stress ecosistemico dovuto alla perdita di complessità, affermano gli autori, avrebbe ricadute attualmente imprevedibili. Ciò che sappiamo è che la conservazione della biodiversità, prima ancora del clima, gioca un ruolo fondamentale nella conservazione degli ecosistemi.
Immagine: Jorge González, via Wikimedia Commons
È quanto si legge su un autorevole studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), che ci mette in guardia dal rischio che stiamo correndo nel mettere in ginocchio le popolazioni di mammiferi, specialmente di grandi dimensioni. Questi si trovano molto spesso al vertice della piramide ecologica, influenzando in diversi modi le abitudini alimentari e le dinamiche di dispersione delle specie con cui condividono l’habitat.
Quando parliamo di megafauna ci riferiamo solitamente a mammiferi che superano i 44 kg di peso. Dal tardo Pleistocene a oggi, il mondo ha perso l’85% dei mammiferi, molti dei quali di grandi dimensioni. Sicuramente la mano dell’uomo ha pesato su questa perdita più di quanto non abbia fatto il clima.
La scomparsa della megafauna
Prima di allora, l’estinzione del quaternario, che si considera tra i 50.000 e i 10.000 anni fa, ha segnato la scomparsa di buona parte della megafauna mondiale. Tra i più noti rappresentanti del genere il mammut, che poteva pesare tra le 6 e le 8 tonnellate, in casi eccezionali 12. Ma non era solo. Per lungo periodo la neonata umanità di cacciatori-raccoglitori ha predato la megafauna di tutto il mondo, facendola collassare. Una di queste prede fu l’antenato dell’attuale vombato australiano (Diprotodon). A differenza del wombat, marsupiale che pesa tra i 20 e i 30 kg, il Diprotodon pesava certamente più di 100 kg e aveva un’altezza media di 1,8 metri.
Per comprendere quale possa essere l’impatto dell’attuale declino della megafauna per cause antropiche, il gruppo di ricerca guidato da Felisa A. Smith (Università del New Mexico), ha indagato le conseguenze a breve e lungo termine dell’estinzione del quaternario, analizzando il record fossile del tardo Pleistocene in corrispondenza dell’Altopiano di Edwards, nel Texas centro-occidentale.
In particolare, i ricercatori si sono concentrati su due parametri: la nicchia isotopica e la taglia corporea. A differenza della nicchia ecologica, la nicchia isotopica permette di ricostruire la rete alimentare di un determinato ecosistema del passato, essendo gli isotopi di carbonio un’utilissima firma lasciata dalle prede e dai predatori all’interno di una dieta. Con questo metodo è dunque possibile capire come si è alterata la catena trofica indipendentemente dalle variazioni ecologiche.
I risultati della ricerca
La ricerca ha mostrato che la fauna dell’Olocene è ampiamente differente da quella che precedette l’estinzione della megafauna del quaternario, in particolare per la sua funzione ecologica e le dimensioni corporee. Complessivamente, si legge nella ricerca, dall’inizio dell’Olocene a oggi la dimensione corporea si è notevolmente ridotta.
Dallo studio emerge che la scomparsa dei grandi mammiferi ha provocato uno slittamento delle specie all’interno della catena trofica e una progressiva riduzione della taglia come conseguenza delle diverse abitudini alimentari e della nuova nicchia ecologica che alcune specie sono riuscite a ritagliarsi.
La conseguenza più grave, al di là della già grave perdita di biodiversità, è che l’assenza di megafauna ha lasciato nicchie ecologiche vuote. Mentre nel caso degli erbivori gli spazi rimasti vuoti non furono rimpiazzati, senza gravi conseguenze, la perdita di complessità dei mammiferi carnivori (solitamente predatori apicali) si ripercosse sull’intera catena trofica di quell’area, alterando profondamente le abitudini alimentari dei carnivori e dei generalisti sopravvissuti e provocando uno slittamento nello sfruttamento delle risorse. Ne deriva dunque una perdita di complessità ecologica, ovvero di diversità in termini di specie animali e vegetali e la conseguente alterazione dei cicli bio-fisico-chimici, che può portare al collasso un intero ecosistema.
A partire da 10.000 anni fa si è infatti registrata una drastica riduzione delle interazioni biologiche e gli ecosistemi sono diventati via via più omogenei e meno diversificati, con conseguenze gravissime sulla loro tenuta e la capacità di rigenerarsi.
Studiare il passato per anticipare il presente
Noi, come le altre specie, siamo adattati a vivere nel mondo che abbiamo ereditato così come lo abbiamo ereditato, ovvero come prodotto di milioni di anni di coevoluzione. Tuttavia, se da un lato l’ambiente sostiene la vita, dall’altro la vita sostiene l’ambiente attraverso le funzioni e i ruoli ecologici che le specie hanno acquisito nel tempo. Il mondo naturale che abbiamo ereditato è quello che gli stessi organismi hanno contribuito a creare. All’interno di questo reciproco scambio alcune specie giocano un ruolo più decisivo di altre, poiché la loro presenza è capace di influenzare la catena trofica di cui fanno parte, alterandone gli equilibri.Un ulteriore stress ecosistemico dovuto alla perdita di complessità, affermano gli autori, avrebbe ricadute attualmente imprevedibili. Ciò che sappiamo è che la conservazione della biodiversità, prima ancora del clima, gioca un ruolo fondamentale nella conservazione degli ecosistemi.
Immagine: Jorge González, via Wikimedia Commons
Laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, sto completando un Master in comunicazione ambientale presso l’Università degli Studi dell’Insubria. Il mio interesse è rivolto alla filosofia della biologia, all’ambiente e alla filosofia della mente in riferimento alle questioni neuroscientifiche.