Cosa resta alla filosofia della scienza? Breve storia di un fraintendimento
Il genetista e divulgatore Edoardo Boncinelli, nel suo ultimo saggio “La farfalla e la crisalide. La nascita della scienza sperimentale” (Raffaello Cortina), ripercorre una storia di difficile convivenza tra pensiero filosofico e scienza
Il genetista e divulgatore Edoardo Boncinelli, nel suo ultimo saggio “La farfalla e la crisalide. La nascita della scienza sperimentale” (Raffaello Cortina), ripercorre una storia di difficile convivenza tra pensiero filosofico e scienza. La crisalide della filosofia occidentale ha custodito l’interesse per il mondo naturale fino a quattro secoli fa, quando l’avvento del metodo sperimentale ha segnato l’irreversibile rivoluzione che avrebbe liberato la farfalla della scienza dalla sua storica incubatrice, rendendola pienamente autonoma. La farfalla, non più gravata da un’inutile zavorra, può ora librarsi nei cieli della razionalità, perseguendo il progresso scientifico e tecnologico. Ma i funerali della filosofia, da tempo annunciati per l’anacronismo e l’inefficacia dei suoi metodi, non sono ancora stati celebrati. È il sintomo più eloquente di uno storico equivoco
Il rapporto che ha legato filosofia e scienza nel corso della storia umana rimane una delle tematiche più controverse e divisive nel dibattito intellettuale, regolarmente rievocato – spesso in tempi di crisi – per difendere la torcia della conoscenza da indegni impostori, e per riassegnare a ognuna i confini dei rispettivi magisteri. I toni sono quelli di un conflitto naturale e inevitabile, e di una irrimediabile incompatibilità di metodi a fronte di fini che guardano in una stessa direzione: se l’obiettivo è far avanzare la conoscenza, una delle due risulterà più efficace dell’altra, una progredirà realmente mentre l’altra no (o sembrerà farlo solo in apparenza), una si dimostrerà capace di uno sguardo lungimirante al futuro, l’altra rimarrà incatenata a una sterile autoreferenzialità.
Quella appena descritta è l’iconografia dell’alternativa tra pensiero scientifico e filosofico. E chiede di schierarci: o dalla parte di esperimenti e misurazioni, o da quella della razionalità aprioristica e dei modelli teorici. Tra il laboratorio e la poltrona non si danno terze vie, né fantasiosi appelli a reciproci benefici. C’è posto per una sola fonte stabile di conoscenza, l’alternativa ne rappresenta al più un freno o un danno.
In fondo, come pensare altrimenti? Il contenzioso è storicamente costellato di numerose voci autorevoli. Steven Weinberg, premio Nobel statunitense per la fisica nel 1979, nel noto saggio “Dreams of a Final Theory: The Search for the Fundamental Laws of Nature (1993)” intitolò un intero capitolo (il settimo) “Against philosophy” (Contro la filosofia), in cui argomentava che oggi non ci si dovrebbe attendere che la filosofia (in particolar modo la filosofia della scienza), fornisca alcun tipo di utile guida per il lavoro degli scienziati (e in particolar modo per la fisica). E richiamandosi a un articolo del fisico Eugene Wigner – “L’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali” – si interrogò su un fenomeno non meno enigmatico, “l’irragionevole inefficacia della filosofia”.
Per la filosofia la diagnosi finale è notoriamente arrivata con le parole dell’astrofisico Stephen Hawking, nel saggio pubblicato a quattro mani con Leonard Mlodinow “The Grand Design” (2010): “La filosofia è morta”. E sarebbe stata spodestata delle sue tradizionali domande intorno all’origine del mondo, da dove veniamo e perché siamo qui. Non ha tenuto il passo coi moderni sviluppi della scienza, rendendo gli scienziati “gli unici detentori della torcia della scoperta nella nostra ricerca della conoscenza”. Il fisico teorico e cosmologo Lawrence Krauss, autore di “Universe from Nothing: Why There Is Something Rather than Nothing” (2012), si è perfettamente inserito nel solco tracciato da Hawking, argomentando a più riprese che la fisica avrebbe reso obsolete filosofia e religione[1] (facce di una medesima consolazione?)[2] e che branche rilevanti della filosofia (come la logica o l’etica) sarebbero oggi destinate a essere inglobate da altre discipline.[3]
Tuttavia il mondo della fisica, pur avendo a lungo tempo dominato le arene di confronto con la filosofia, non rimane oggi l’unica voce in campo. Il biologo evoluzionista e divulgatore Richard Dawkins, che al saggio di Krauss ha dedicato una generosa postfazione (paragonandone il potenziale impatto a quello dell’ “Origine delle specie” di Darwin!), si è dimostrato altrettanto critico nei confronti della filosofia. Tra le pagine del “Gene egoista” (1976) si chiese perché la “filosofia e le materie cosiddette «umanistiche» venissero ancora insegnate quasi come se Darwin non fosse mai esistito”? E nella Prefazione de “L’orologiaio cieco” (1986) si interrogava su come fosse possibile che la teoria dell’evoluzione avesse dovuto aspettare la metà del diciannovesimo secolo per essere formulata, a 200 anni di distanza dalla pubblicazione dei Principia di Newton e più di 2000 dalla misurazione della circonferenza terrestre da parte di Eratostene. Com’è stato possibile che un’idea così semplice non sia stata scoperta da pensatori del calibro di Newton, Galileo, Cartesio, Leibniz, Hume e Aristotele? “Quale fu l’errore di filosofi e matematici per lasciarsela sfuggire?”.
Più di recente, il genetista italiano Edoardo Boncinelli, non nuovo nelle sue sferzate alla filosofia[4], ha preso di petto il rapporto tra scienza e filosofia senza particolari timori diplomatici. Il saggio “La farfalla e la crisalide” (Raffaello Cortina, 2018) traccia una provocatoria controstoria dell’origine e dell’evoluzione della filosofia — dall’antichità greca, al pensiero occidentale nell’era cristiana, fino all’età moderna e alla nascita della scienza sperimentale, momento in cui si sarebbe spalancato un incolmabile abisso tra approccio scientifico e filosofico.
La filosofia, definita dallo stesso Boncinelli il suo “primo amore intellettuale” (di quelli che si superano, e si raccontano con vena derisoria in età adulta) si sarebbe distinta da altre forme di riflessione per l’hybris di interrogarsi sulla natura del mondo nel suo complesso, divenendo una zona franca in cui è possibile parlare di tutto, senza la preoccupazione di dover produrre prove a sostegno di teorie e ipotesi. La filosofia greca, nata come un supercapitolo riguardante la natura del mondo e caratterizzata da un’imprescindibile libertà di argomentare (pp. 16-17), avrebbe favorito la nascita della scienza proprio in virtù di queste due fondamentali caratteristiche, ma presto si sarebbe rivelata come un “sistematico e lucido travalicamento del reale”, realizzatosi successivamente con Platone e in parte con Aristotele (p. 21). Platone, in particolare, tra i numerosi doli e abbagli, con il suo famoso “mito della caverna” si sarebbe reso colpevole di una “superba arbitrarietà e di stampo irrimediabilmente aristocratico ed elitario” (p. 30), insinuando che la verità sia da qualche parte e basti solo contemplarla (p. 39) e sarebbe responsabile di aver messo in circolazione una concezione dell’anima, “uno dei pilastri della nostra visione del mondo” e “un’idea guida della massima inutilità” (p.31), assieme a numerose altre idee illusorie lasciate in eredità a danno del pensiero occidentale. La filosofia greca si sarebbe poi macchiata di un’onta indelebile nell’aver fornito il libretto delle istruzioni alla religione cristiana, ispirandone contenuti e linee guida, e abbandonando così le cerchie delle élite per condizionare le convinzioni dei più (pp. 59-60).
Che dire poi, attraversate le tempeste del Medioevo e del Rinascimento, di figure ibride come Cartesio, matematico e filosofo che sostenne la necessità di dare un metodo alla ricerca filosofica e scientifica prendendo a modello la matematica? Pure con Cartesio, sempre di essenzialismo si tratta: “inventare parole e pretendere che quelle designino realtà o essenze” (p. 72). Boncinelli scorre con vertiginosa rapidità un inventario di figure e idee attraverso i secoli, calando la scure sull’ingenuità speculativa degli antichi (non senza scivolare, in diverse occasioni, in rappresentazioni caricaturali, come quella di un cogito cartesiano ridotto a un semplice espediente per troncare sterili discussioni, anziché il punto di arrivo di un’operazione autocritica della conoscenza, espressa nello scetticismo metodologico)[5].
Al disinteresse dei filosofi per la verificabilità e l’affidabilità delle affermazioni, in contrapposizione con la ricerca della verità, è attribuita infine la causa di “uno dei più disastrosi divorzi della storia dell’umanità, quello fra riflessione filosofica e ricerca scientifica” (p. 75), un divorzio che non avrebbe avuto grosse conseguenze sul piano pratico, ma profonde su quello culturale. Dopo la nascita della scienza sperimentale, il pensiero filosofico – la cui stagione non sarebbe finita, non essendosi molti filosofi accorti di quel che era successo (p.143) – avrebbe addirittura esercitato un’influenza negativa sulla mentalità scientifica. Una volta liberatasi la farfalla, la crisalide da cui è nata e la cui presenza è stata imprescindibile, si sarebbe rivelata tossica per l’insetto alato. Le due strutture biologiche devono così separarsi una volta per tutte?
Senza indugiare sulle pungenti stoccate che accompagnano il saggio, alcune ascrivibili a una satira tristemente verosimile (“oggi il filosofo medio è il miglior alleato del prete nell’opera di demolizione e demonizzazione della scienza”, p. 143), altre costellate di una buona dose di aneddotica personale (p. 162) – è importante cogliere l’occasione per una riflessione attuale e disincantata intorno al profilo e al ruolo di quella filosofia che, per lo stretto rapporto che intrattiene con la scienza, è destinata più di altre a dover rendere conto del proprio statuto nei luoghi di formazione e di informazione, e nella società. Ed è doveroso interrogare le ragioni della sfiducia sollevata da alcune figure autorevoli del mondo della ricerca scientifica nei confronti degli strumenti di questa filosofia – la filosofia della scienza – e della sua capacità di presa sulle sfide del presente.
Dell’argomentazione di Boncinelli sfugge anzitutto l’obiettivo polemico. Risulta difficile comprendere se la critica è indirizzata – per adottarne l’ironia — ai contenuti di un sommario manuale di filosofia per la scuola secondaria (la selezione e la rassegna dei temi nel saggio sembrano tradirne la struttura), o in maniera più sottile alla rilevanza storica della filosofia e degli studi umanistici in Italia, e alle metodologie didattiche degli stessi (non certamente immuni a critiche), oppure a qualche figura isolata, mediaticamente più ingombrante di altre, che si dileggia a denigrare l’impresa scientifica e la sua divulgazione, esaltandone i limiti e le degenerazioni cosiddette “scientiste”, anziché rilevarne le evidenti conquiste. Perché non si sprechi l’occasione di un dialogo autentico, è importante che della filosofia, così come della ricerca scientifica, non vengano offerti fantocci di paglia (straw men, come da nota fallacia argomentativa).
In particolare, Boncinelli si appella a una “filosofia” generica dai contorni sfumati, mancando di distinguere diverse branche e realtà che operano al suo interno, come la storia della filosofia, la filosofia teoretica, la filosofia pratica, la filosofia politica, e la filosofia della scienza. Queste discipline non condividono il medesimo rapporto con il dibattito scientifico, e sono il prodotto di percorsi storici ed evolutivi differenti, che da soli basterebbero a richiedere un trattamento specifico, aspetto che risulta largamente trascurato nell’indifferenziata cavalcata di nozioni e questioni lungo la storia della filosofia all’interno del saggio.
La filosofia della scienza, la prediletta di famosi adagi che ne hanno paragonato l’utilità per gli scienziati all’utilità dell’ornitologia per gli uccelli, e che scegliamo di porre al centro di questa riflessione, è oggi un terreno in grosso fermento, le cui sfide maggiori sono giocate sul crinale tra expertise e aree disciplinari fra loro molto diverse, chiamando così all’appello figure dalla formazione ibrida, in grado di farsi carico dell’impresa di una ricerca multidisciplinare.
La filosofia della scienza, è importante sottolinearlo, è stata per lungo tempo fraintesa come proprietà intellettuale ed esclusiva dei filosofi di professione. L’epistemologia, la disciplina che studia i processi, i metodi e i modelli in gioco nella formazione della conoscenza scientifica, non può più essere concepita a uso e consumo solamente di chi ha un’affiliazione in un dipartimento di filosofia. Questo, tradotto in termini pratici, richiede anzitutto una radicale impresa di autocritica da parte della filosofia della scienza stessa, che troppo spesso manca di volontà di aggiornamento sulle frontiere che realmente impegnano il grosso delle risorse (intellettuali ed economiche) nella ricerca scientifica, e sui nodi concettuali su cui varrebbe la pena mettere ordine, rimanendo all’interno di camere ecoiche che problematizzano una scienza dai tratti inattuali. E se la scienza di cui parlano i filosofi non è riconoscibile dagli scienziati stessi, ogni premessa di dialogo è minata in partenza. Se alla filosofia si vuole attribuire qualcosa di più di una semplice dignità culturale, costruendo le condizioni perché possa esercitare un impatto reale (su scienziati, ornitologi ed uccelli), un programma di formazione multidisciplinare e un paziente e costante aggiornamento sono impegni che vanno presi responsabilmente.
In fondo, le potenzialità dell’epistemologia nell’attività scientifica e il valore di un’educazione al metodo sono oggi enormi, e tuttavia rimangono in larga parte inesplorati. Vi sono almeno tre ragioni per cui è imperativo al giorno d’oggi convincersene: le prime due interne alle dinamiche del mondo della ricerca; la terza relativa all’efficacia della comunicazione dei risultati della ricerca ai cittadini, protagonisti di un’era mediatica caratterizzata da una bulimia dell’informazione, dove contenuti e notizie viaggiano e si diffondono a velocità inedite.
La prima ragione riguarda la dinamica razionale interna di evoluzione di un programma di ricerca scientifico. Il filosofo della scienza ungherese Imre Lakatos, nel tentativo di armonizzare il falsificazionismo di Karl Popper con la teoria dei paradigmi di Thomas Kuhn, e di superarne i rispettivi limiti, propose una “metodologia dei programmi di ricerca”[6]. Lakatos sostenne, in estrema sintesi, che le “unità di analisi” fondamentali per la filosofia della scienza non fossero le singole teorie, ma interi programmi di ricerca – ovvero, una serie di teorie successive (o versioni del programma) accomunate da un certo numero di ipotesi fondamentali, costituenti il nucleo del programma di ricerca. Ogni versione del programma contiene tuttavia anche delle ipotesi aggiuntive su cui gli scienziati lavorano quotidianamente, e che costituiscono la cintura protettiva del programma di ricerca. Nell’avvicendarsi di diverse versioni del programma alcune ipotesi della cintura potranno essere abbandonate o sostituite, altre rafforzate, senza che la sostanza del nucleo ne risulti alterata. Ulteriore caratteristica di un programma di ricerca è il fatto di fornirsi di un’euristica, ovvero di una direzione di sviluppo, in cui fonti di problemi e possibili percorsi per la loro soluzione vengono anticipati in modo coerente con la struttura del programma.
La prospettiva lakatosiana può risultare utile per inquadrare l’architettura e le dinamiche evolutive di imprese scientifiche in costante movimento, comprendendo la reale portata delle trasformazioni rispetto ai fondamenti esplicativi. Nel programma di ricerca evoluzionistico, ad esempio, frettolosi proclami relativi a un cambio di paradigma per una crescente attenzione riservata ora a temi come la biologia evolutiva dello sviluppo (evo-devo), la costruzione di nicchia, la plasticità fenotipica o l’ereditarietà epigenetica, non trovano ragione d’essere, dal momento che tali fenomeni non fanno altro che ampliare il potere esplicativo di un nucleo di assunti e fondamenti metodologici che continua a essere condiviso dalla comunità scientifica (e che rimane di stampo inconfondibilmente darwiniano).[7]
Per quanto riguarda la seconda ragione che illustra i benefici di un’educazione epistemologica nella ricerca, è facile osservare come le principali sfide globali del nostro secolo – dal cambiamento climatico, allo sfruttamento delle fonti rinnovabili di energia e allo sviluppo sostenibile – dipendano strettamente dalla capacità di integrare con successo dati e metodi di indagine di natura eterogenea, riuscendo a interconnettere approcci scientifici talvolta distanti fra loro e i relativi bias nelle procedure, al fine di offrire una comprensione sempre più robusta dei fenomeni, e avanzare rapidamente proposte risolutive in grado di contenere le deleterie conseguenze in atto della pessima condotta della società globalizzata degli ultimi decenni.
Alcuni filosofi della scienza parlano a tal proposito di “metodo della triangolazione”[8], che consiste precisamente nell’integrazione di approcci diversi nell’affrontare un medesimo interrogativo, sulla base della fondamentale intuizione che risultati convergenti provenienti da metodologie e campioni di dati diversi saranno meno soggetti a contenere errori o distorsioni. Questo richiede, com’è ovvio, un grado di consapevolezza epistemologica di come operi la propria specifica area di ricerca, del grado di affidabilità dei risultati prodotti e dei bias propri di ogni metodo di indagine. Tutti questi elementi, seppur raramente chiamati in causa nelle pratiche di laboratorio di ogni giorno, operano come un basso continuo e condizionano interi programmi di ricerca, spesso come “una filosofia inconsapevole” che emerge nelle faglie di disaccordo che regolarmente (e in modo del tutto salutare) si aprono nel dibattito scientifico.
Integrare nel percorso di formazione degli scienziati strumenti essenziali di epistemologia e di storia critica della loro disciplina, e sospendere la diffidenza nel collaborare con chi di epistemologia si occupa in contesti inter- e trans-dipartimentali, può portare a tangibili vantaggi. E questi, tendiamo a crederlo, non tarderebbero a mostrarsi.
Relativamente alla comunicazione e alla divulgazione della ricerca scientifica al grande pubblico, è tendenza comune attribuire maggiore priorità alla trasmissione di contenuti ed evidenze, (incluse le operazioni di demistificazione o debunking, che mantengono una comprensibile enfasi sui fatti e le fonti di informazione) rispetto ai processi in atto e alle caratteristiche che identificano il metodo scientifico (e che lo distinguono così da altre forme di indagine). Tra le barriere che si frappongono in un efficace processo comunicativo, spesso si annoverano la scarsa familiarità del pubblico con nozioni scientifiche di base o i risultati più recenti della ricerca, il ruolo svolto dai pregiudizi di conferma (confirmation biases) che portano a selezionare e ad attribuire maggiore credibilità a interpretazioni in linea con le proprie convinzioni, l’allentamento del rapporto di fiducia con gli scienziati e le modalità di finanziamento della ricerca. Nonostante alcuni apprezzabili cambi di rotta, scarsa attenzione viene ancora generalmente dedicata agli aspetti epistemologici che caratterizzano le diverse discipline scientifiche – perché un risultato può ritenersi affidabile sulla base delle evidenze a disposizione, come tale risultato è stato raggiunto, quali sono i fattori di dubbio e di incertezza ineliminabili, e come comunicarli (perché è essenziale farlo) senza generare pericolosa confusione o dare adito ad ulteriore sfiducia.
Le questioni scientifiche che maggiormente esasperano l’opinione pubblica – le reali dimensioni del cambiamento climatico, la sicurezza degli alimenti, la sicurezza dei vaccini e le politiche di vaccinazione – difficilmente potranno essere affrontate tramite un efficace engagement pubblico limitandosi ad inanellare una massa critica di fonti e dati peer-reviewed, se questa non è accompagnata da una sensibile educazione riguardo a ciò che rende la scienza tale, riguardo agli aspetti quantitativi dei concetti di rischio e probabilità (cifre non relativizzate sanno essere fortemente disorientanti) e a come operi la comunità scientifica al proprio interno, nel formulare nuove ipotesi, nell’abbandonarne altre in un costante processo di auto-correzione, e in generale nel produrre conoscenza cumulativa da fronti indipendenti.
L’attenzione per gli aspetti epistemologici della scienza è ciò che permette di mostrarne l’autorevolezza, e rifuggirne l’ombra di autoritarietà. E può offrire strumenti importanti nel rendere più familiari gli aspetti cognitivamente più controintuitivi, e maggiormente soggetti a resistenza. Detto altrimenti, non è possibile fare buona comunicazione della scienza senza filosofia della scienza.
La filosofia, infine, lungi dall’essersi ridotta a una serie di note a margine a Platone[9], o a una inerte crisalide su un ramo secco della conoscenza, si trova oggi di fronte all’opportunità (coglibile realmente solo abbandonando lo stato di dormienza che ancora ne caratterizza diversi e ampi settori al suo interno) di svolgere un ruolo di interpretazione e coordinazione delle risorse e delle metodologie scientifiche per affrontare prove imminenti, in un’ottica multidisciplinare volta a promuovere il dialogo e una responsabile collaborazione – forse, il miglior lascito positivo che le future generazioni possano ricevere.
”Concordo pienamente con lei sull’importanza e il valore educativo della metodologia, della storia e della filosofia della scienza. Molte persone al giorno d’oggi – compresi gli scienziati professionisti – mi appaiono come colui che ha visto migliaia di alberi senza mai vedere una foresta. Una conoscenza dello sfondo storico e filosofico fornisce proprio quella indipendenza dai pregiudizi della propria generazione dai quali la maggior parte degli scienziati sono afflitti. Questa indipendenza determinata dall’analisi filosofica è – a mio giudizio – il segno di distinzione tra un semplice artigiano o specialista e un autentico cercatore di verità”[10][Albert Einstein, 1944]
Andra Meneganzin, da La Mela di Newton
NOTE
[1] https://www.theatlantic.com/technology/a…
[2] https://www.scientificamerican.com/artic…
[3] Recentemente, dalle colonne di un incendiario commento su Nature https://www.nature.com/news/scientific-m…), i fisici George Ellis e Joe Silk hanno definito i contorni di una battaglia per l’integrità del metodo scientifico e della fisica come disciplina. I tentativi di dispensare teorie speculative sull’universo dalla verifica sperimentale danneggerebbero la scienza, e la fisica teorica – il focus della loro requisitoria, con buona pace di Krauss – si sarebbe trasformata in una “terra di nessuno” tra matematica, fisica e filosofia, senza incontrarne realmente i requisiti. Ellis e Silk allo stesso tempo, in perfetta controtendenza, invocavano un maggiore dialogo tra scienziati e filosofi per contenere un potenziale danno alla fiducia dell’opinione pubblica nella scienza, e alla natura della fisica fondamentale. Ma è il pericolo di un’inaccettabile contaminazione di metodi a richiedere misure straordinarie – l’apertura al dialogo coi filosofi?
[4] Si veda, ad esempio, l’intervista pubblicata su Linkiesta : https://www.linkiesta.it/it/article/2016/01/16/litalia-ignorante-e-sospettosa-nemica-della-scienza/28923/
[5] Cfr. pp 72-73
[6] Imre Lakatos, La metodologia dei programmi di ricerca scientifici, Il Saggiatore, 2001
[7] Per approfondire, si veda: Pievani T. (2015) How to rethink evolutionary theory: a plurality of evolutionary patterns, Evolutionary Biology, (http://link.springer.com/article/10.1007%2Fs11692-015-9338-3)
[8] Per approfondire https://www.nature.com/articles/d41586-0…
[9] L’aforisma è notoriamente attribuito a Alfred North Whitehead
[10] In F. Laudisa, Albert Einstein e l’immagine scientifica del mondo, Carocci ed., 2015