Dalla pietra all’utensile attraverso il fuoco, una scoperta dei primi sapiens

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Dove non arriva la semplice analisi dei reperti a volte può il tentare di mettersi nei panni di chi è vissuto millenni fa, o perlomenoè così che Kyle Brown, archeologo sperimentale presso l’università di Città del Capo in Sudafrica, ha compreso la raffinata tecnica che sta dietro a numerosi manufatti litici risalenti al periodo compreso tra 164.000 e 47.000 anni […]

Dove non arriva la semplice analisi dei reperti a volte può il tentare di mettersi nei panni di chi è vissuto millenni fa, o perlomenoè così che Kyle Brown, archeologo sperimentale presso l’università di Città del Capo in Sudafrica, ha compreso la raffinata tecnica che sta dietro a numerosi manufatti litici risalenti al periodo compreso tra 164.000 e 47.000 anni fa ritrovati nei siti attorno a Still Bay, a qualche centinaio di chilometri dalla metropoli sudafricana. I minerali locali, derivati della silice difficili da scheggiare e molto friabili, erano sempre sembrati inadatti per ottenere strumenti tanto affilati e robusti come quelli ritrovati in loco, e dopo qualche tentativo andato a vuoto Brown ha cominciato a notare la somiglianza tra la lucentezza di molti di questi e quella di alcuni utensili ritrovati in America del Nord di cui si sapeva fossero stati ottenuti trattando la pietra col calore.

Come fare a capire se anche in questo caso il fuoco aveva giocato un ruolo nella manifattura? semplice, come dichiarato da Brown alla rivista NewScientist: “sembrava che la cosa più logica da fare fosse prendere un po’ di questo materiale di scarsa qualità che avevamo collezionato, metterlo sotto un fuoco e vedere cosa succedeva”. Dopo un numero di ore variabile tra le 5 e le 10 il risultato fu esattamente quello che ci si poteva aspettare: il materiale era diventato più duro, color rosso lucente e più semplice da scheggiare, perfetto per ottenere strumenti litici di alta qualità e, cosa più importante, identico a quello di cui erano fatti i reperti ritrovati. Brown e i suoi collaboratori, il progetto di ricerca ha coinvolto difatti anche ricercatori di molte altre università sparse in giro per il mondo, hanno dovuto però testare meglio questa ipotesi e trovare una prova maggiormente dirimente prima di presentare l’articolo a Science; sono quindi andati in cerca di indizi di cottura direttamente nei manufatti recuperati in Sudafrica.

Riscaldare un minerale, infatti, lascia parecchi segni su di esso. In primo luogo le parti ferrose, nelle rocce che le contengono, vanno incontro a un peculiare fenomeno di riallineamento magnetico (in pratica il loro allineamento magnetico, “fissatosi” alla formazione del minerale, si resetta e si riforma seguendo l’orientamento corrente dell’asse terrestre), che rimane impresso fino a un nuovo riscaldamento ed è facilmente riscontrabile a un esame attento; tutte e 12 le lame testate in questa maniera ne hanno evidenziato chiare tracce. Un secondo esame si basa sul rilascio di elettroni provocato dal riscaldamento, che lentamente “rientrano” nel minerale, abbastanza lentamente da mostrare se la roccia è stata riscaldata in tempi recenti; anche in questo caso, tutti i manufatti testati mostravano queste traccie. Infine, buona parte dei ritrovamenti appaiono chiaramente scheggiati solo dopo la cottura, permettendo così di escludere l’eventualità che quest’ultima fosse accaduta per caso su utensili ottenuti da pietra “cruda” rimasti intrappolati in un incendio boschivo.

Quali sono le implicazioni di questa scoperta? innanzitutto essa va ad accostarsi alle altre evidenze di “modernità comportamentale” ritrovate in Africa già dopo pochi millenni dalla comparsa della nostra specie (avvenuta circa 200.000 anni fa), come ad esempio le numerose conchiglie forate presumibilmente utilizzate per fabbricare ornamenti ritrovate a Blombos e Taforalt. Una seconda considerazione fatta da Brown, inoltre, è che una simile innovazione tecnologica potrebbe aver giocato un ruolo chiave nella conquista sapiens del resto del mondo (che per lui sarebbe cominciata proprio dal Sudafrica), specialmente nell’assicurare un vantaggio nei confronti dell’altra specie umana con cui ha probabilmente convissuti in alcuni tempi e alcuni luoghi: i Neandertal. Quest’ultima congettura necessita di prove e non sembra nemmeno troppo probabile, per quanto difatti sia facile vedere ogni tratto unico scoperto agli albori della nostra specie come chiave del nostro successo il Sudafrica è molto lontano dal Medio Oriente e dall’Europa, ma d’altra parte questa scoperta, che fissa una data per l’alba della pirotecnologia, non ha certo bisogno di ulteriori speculazioni per rivestire una notevole importanza.

Marco Michelutto


Riferimenti:
Kyle S. Brown, Curtis W. Marean, Andy I. R. Herries, Zenobia Jacobs, Chantal Tribolo, David Braun, David L. Roberts, Michael C. Meyer, and Jocelyn Bernatchez, Fire As an Engineering Tool of Early Modern Humans, Science 14 August 2009: Vol. 325. no. 5942, pp. 859 – 862