Demoni darwiniani e nematodi cannibali: il costo della plasticità fenotipica

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Per quanto sia molto vantaggiosa in certe condizioni, la capacità di un genotipo di “tradursi” in un fenotipo diverso in base agli stimoli ambientali (plasticità fenotipica) si rivela anche costosa, come suggerito dagli esperimenti condotti su un’illuminante specie di vermi nematodi

L’instabilità è una caratteristica comune a gran parte degli ecosistemi della Terra. Come ormai ci accorgiamo sempre di più, anche per la nostra esperienza personale, le condizioni ambientali cambiano nel tempo, a volte in maniera davvero repentina. Per questo motivo, moltissime specie hanno bisogno di “escogitare” dei modi per far fronte ai cambiamenti.

Non è un caso che l’abilità ereditata geneticamente di rispondere a stimoli ambientali diversi sviluppandosi in maniera diversa (e cioè, con un fenotipo diverso), si riveli spesso un’ottima strategia, proprio perché permette una risposta rapida alle fluttuazioni esterne e non rende necessari dei cambiamenti genetici specifici che facciano dell’organismo uno “specialista” per una determinata situazione. In termini tecnici, questa importante e diffusissima proprietà è detta plasticità fenotipica, e permette agli individui geneticamente “generalisti” di modificarsi per affrontare le sfide dell’ambiente.

Quando essere generalisti dà una marcia in più dal punto di vista della probabilità di riprodursi, parliamo di plasticità fenotipica adattiva, che si differenzia da quella cosiddetta “maladattiva” e da quella neutrale proprio per i benefici che conferisce ai portatori delle configurazioni genetiche (o genotipi) che rendono possibile questa flessibilità. La plasticità adattiva si trova praticamente ovunque: dagli insetti alle piante, dai vertebrati ai vermi, e in innumerevoli altri gruppi.

Quali sono i limiti della plasticità fenotipica

Tuttavia, come spesso accade in biologia, anche la plasticità adattiva è soggetta a dei vincoli, che sono spesso tra gli aspetti più intriganti dell’evoluzione. In uno studio pubblicato su Evolution Letters nel 2023, il biologo evolutivo Mohannad Dardiry e colleghi del Max Planck Institute for Biology Tübingen indagano, tra le altre cose, il costo della plasticità, cioè la penalità in termini di prole prodotta che affligge i genotipi più plastici rispetto a quelli che lo sono meno. Per farlo, questi scienziati hanno confrontato ceppi diversi di una stessa specie, alcuni plastici, altri no. Dettaglio degno di nota, i risultati descritti nell’articolo sono in buona parte basati su un approccio empirico, che resta tutt’oggi piuttosto raro per questo specifico argomento, riguardo al quale le informazioni sono davvero scarse e poco soddisfacenti. Tanto per farsi un’idea sullo stato dell’arte, alcuni studi precedenti citati dagli stessi autori mettono in dubbio non solo l’entità dei costi della plasticità, ma addirittura il fatto che questi costi esistano davvero.

Prima di menzionare alcuni dei risultati più rilevanti di questa ricerca, è fondamentale fare un breve identikit del suo protagonista assoluto: si tratta del minuscolo verme nematode Pristionchus pacificus, modello animale ideale per lo studio della plasticità fenotipica e successore “spirituale” di altri piccoli organismi dall’immenso potenziale scientifico, dal batterio Escherichia coli al moscerino della frutta Drosophila melanogaster. Oltre a essere piccolissimi, questi vermi si riproducono molto velocemente e sono ermafroditi, nel senso che ciascun individuo può produrre sia le cellule sessuali femminili che quelle maschili. Per questo motivo, sono animali perfetti per essere studiati in laboratorio, soprattutto se si ha l’obiettivo di considerare più generazioni.

Il carattere fenotipico plastico di P. pacificus considerato dagli autori dell’articolo è la bocca, che può svilupparsi in due modi diversi, influenzando radicalmente anche il comportamento alimentare dell’animale. Questo nematode può sviluppare una bocca ampia e dotata di denti uncinati, associata a una forma predatoria o cannibalistica (in quanto lo porta a nutrirsi dei suoi simili), oppure una bocca più stretta e con un singolo dente, che corrisponde alla forma non predatoria, con una dieta limitata ai soli batteri. Questo tipo di carattere plastico binario (del tipo on/off) è detto polifenismo. Uno degli aspetti più interessanti del polifenismo in questione è il fatto che si conosca addirittura il gene chiave per la sua produzione (eud-1). In sostanza questo gene, regolato da stimoli ambientali come la temperatura, la dieta e l’affollamento, interagisce con molti altri geni coinvolti nella formazione della bocca e funge da vero e proprio “interruttore” dello sviluppo.

Misurare il costo della plasticità

Venendo ad alcuni risultati dello studio, i ricercatori hanno innanzitutto condotto una coppia di esperimenti per verificare se esistessero dei vantaggi riproduttivi associati a una delle due forme considerando solo vermi che possedevano un genotipo plastico, e hanno notato che la forma predatoria deponeva mediamente meno uova di quella non predatoria e si sviluppava più lentamente. Questa prima rilevazione è decisamente importante, perché indica che la produzione del fenotipo predatorio ha un costo intrinseco. Questo costo, però, non corrisponde al costo della plasticità, che è ciò su cui vorrei concentrarmi.

Per riuscire a verificare l’esistenza del costo della plasticità e per quantificarlo, è stato necessario confrontare due ceppi di vermi, uno plastico e l’altro non plastico. Per farlo, un importante passaggio preliminare è stato proprio quello di distinguere un ceppo dall’altro, osservando se due differenti gruppi di nematodi alterassero o meno il proprio sviluppo una volta sottoposti a una dieta basata su un particolare batterio noto per stimolare, in natura, il passaggio alla forma predatoria batterica in grado di promuovere la forma predatoria. Il gruppo che conservava le proprie caratteristiche iniziali, indipendentemente dalla dieta usata, era quello non plastico. Il ceppo non plastico (interamente composto da predatori) ha dimostrato un evidente vantaggio riproduttivo rispetto a quello plastico quando cresciuto coi batteri associati alla predazione, deponendo un maggior numero di uova e sviluppandosi più velocemente. Una differenza importante tra i due ceppi stava nel fatto che, mentre il primo era già geneticamente specializzato per quel tipo di dieta, il secondo, quello plastico, ha dovuto canalizzare il proprio sviluppo “a posteriori”, cioè come risposta allo stimolo ambientale.

“Demoni darwiniani”

La cosa singolare è che l’esistenza di un costo della plasticità sembrava davvero facile da intuire anche senza ricorrere agli esperimenti: usando una suggestiva espressione degli stessi autori, infatti, in natura non esiste alcun genotipo plastico che, alla stregua di un “demone darwiniano”, sia in grado di surclassare sempre e comunque tutti i genotipi che richiedono invece un cambiamento nel DNA per produrre un fenotipo adatto al proprio ambiente. La soluzione più semplice per giustificare l’assenza di un genotipo così vantaggioso era proprio postulare un’elegante limitazione, come una qualche penalità associata alla plasticità, idea che adesso sappiamo essere corretta. Tuttavia, il valore e il potere esplicativo della scienza stanno proprio nel riuscire a passare dall’intuizione alla verifica sperimentale, e ricerche come questa servono (anche) a ricordarcelo.

Riferimenti:

Dardiry, M., Piskobulu, V., Kalirad, A., e Sommer, R.J. 2023. Experimental and theoretical support for costs of plasticity and phenotype in a nematode cannibalistic trait. Evolution Letters 7(1): 48-57.

Immagine: Robbie Rae, Amit Sinha, and Ralf J. Sommer, CC BY 1.0, via Wikimedia Commons