Diamoci una mano
La mano umana sarebbe molto più simile a quella dell’antenato comune rispetto a quella degli scimpanzé e alle altre antropomorfe. La sua peculiare anatomia non si sarebbe pertanto evoluta in risposta alla crescente manualità della nostra linea evolutiva
Quante espressioni metaforiche utilizzano la mano umana come simbolo: oggetto delle prime forme d’arte rupestre e delle prime forme di scrittura ideografiche (come simbolo dell’agire). Prima unità di misura della storia, segno di potere, oggetto di religioni e presunta mappa del futuro dell’individuo. È citata in politica, economia, letteratura araldica e mille altre attività come essenza stessa dell’umanità. Il fatto di non essere gli unici esseri al mondo dotati di mani era già noto nell’antichità, ma si era fatto presto a bollare le piccole e buffe scimmie allora note come caricature dell’essere umano: magari donate dalle divinità creatrici all’uomo proprio al fine di divertirlo. La netta distinzione (biologica e culturale) tra uomini e gli altri primati subì un forte scossone nel XVII secolo quando le prime grandi scimmie antropomorfe furono portate in Europa, provocando sentimenti contrastanti di empatia e repulsione data la loro somiglianza con l’uomo. Un secolo dopo, Linneo, nel suo ampio lavoro di classificazione dei viventi, non poté negare la somiglianza tra “noi” e “loro” e classificò le scimmie e l’uomo come primati (dall’aggettivo latino primus) a sottolineare come fossero le prime, le migliori, fra tutti gli animali.
Ma, al di la degli scossoni, sembravano evidenti alcuni tratti a distinguere l’uomo dagli altri primati. Tra questi, l’arto prensile umano è raffinatissimo e in grado di manipolare in modo preciso i piccoli oggetti. Innegabilmente una mano, ma ben diversa dalla nostra è quella grossa e ‘rozza’ di gorilla e scimpanzé. Lungo tutta la storia culturale dell’europea, l’estremità superiore umana è stata il simbolo della capacità, unica dell’uomo fra tutti i viventi, di lavorare e creare a immagine e somiglianza del dio creatore. E se i più conservatori vi vedevano il segno divino della grandezza umana, nemmeno i più rivoluzionari potevano sottrarsi a vedere nell’uomo e nel suo arto prensile il segno di una posizione privilegiata in natura: rifacendosi al lavoro di Darwin il filosofo Friedrich Engels, uno dei padri del marxismo ateo, scrisse un saggio intitolato: Del ruolo della mano nella trasformazione dalla scimmia all’uomo, in cui l’arto superiore diventa sinonimo di lavoro e quindi della dignità delle classi più svantaggiate.
Ma, per quanto nel periodo in cui è vissuto Darwin paresse ovvio, secondo la ricerca recentemente svolta da Sergio Almécija, Jeroen B. Smaers e William L. Jungers delle università di Washington, New York e Barcellona; la risposta alla domanda se la parte distale dell’arto superiore umano rappresenti o meno un segno distintivo rispetto al resto del mondo animale è un secco no.
Speciali a ogni costo
La storia dei pregiudizi dell’essere umano, riguardo la sua stessa evoluzione, non è però certo finita con il secolo di Darwin: anche i biologi evoluzionisti successivi sono stati condizionati dalla cultura del loro tempo e dal bisogno inconscio di tutti noi umani di sentirci al centro dell’universo. Accettato che anche noi discendevamo da animali (e siamo noi stessi animali), i naturalisti del primo novecento proposero alberi filogenetici in cui l’uomo, da una parte, e le antropomorfe, dall’altra, divergevano fra loro molto anticamente per procedere su strade separate. Solo negli ultimi trent’anni del secolo appena trascorso tutti furono costretti ad accettare il fatto che i membri del genere Pan fossero parenti a noi più prossimi di quanto lo fossero ai gorilla. L’ultimo rifugio del pregiudizio antropocentrico fu allora presumere che, se proprio abbiamo un ultimo antenato in comune coi nostri cugini del genere Pan, questo non poteva che assomigliare allo scimmiesco scimpanzé e non certo ai raffinati e “evoluti” esseri umani. Soltanto oggi lavori come quello di Almécija e colleghi iniziano a sfatare questo ultimo mito e lo fanno mettendo in discussione proprio l’origine della nobile e gloriosa mano umana che sembrerebbe molto più simile a quella dell’antenato comune di quanto lo sia quella dello scimpanzé, che sarebbe stata forgiata nella sua forma attuale dalle intricate foreste in cui questa specie vive.
Differenze e convergenze
Gli autori della ricerca hanno basato le loro conclusioni su tre gruppi di dati morfologici misurati su un vasto gruppo di scimmie catarrine, fra quelle antropomorfe (Hominoidea) oppure dotate di coda (Cercopithecidae) viventi oppure estinte: le proporzioni intrinseche delle mani, cioè il rapporto fra il primo dito (pollice) e il quarto (anulare); le proporzioni estrinseche, cioè il rapporto intrinseco normalizzato al peso corporeo medio della specie; e infine, noto il più probabile albero filogenetico, basato su dati molecolari, la ricostruzione della condizione morfologica ai punti di snodo dell’albero (antenati comuni) e i processi evolutivi che hanno portato alla condizione attuale. Fra le mani derivate (cioè molto modificate per effetto della selezione ambientale) ci sono quelle di gibboni, orangutan, scimpanzé e bonobo; sono dotati di dita lunghe e forti, ma sviluppate indipendentemente fra di loro a causa di fenomeni di convergenza evolutiva. Fra quelle primitive (poco modificate rispetto a quella degli antenati comuni) sono presenti invece quelle di gorilla (che camminano per lo più a quattro zampe poggiando sulle nocche) esseri umani e varie scimmie africane con la coda. In questo gruppo è presente un sottogruppo di mani, tipiche di umani e alcuni cercopitecidi, poco utilizzate nella deambulazione e molto abili nella manipolazione di oggetti; questa capacità è resa possibile da minimi cambiamenti morfologici rispetto all’antenato comune, unita a un miglior controllo nervoso. Come quelle “arrampicanti” sono frutto di convergenza tra le specie che le possiedono, anche le mani “manipolanti” non umane sono frutto di una convergenza evolutiva con uomo.
Un antenato in meno?
Guardando più da vicino l’essere umano e le specie fossili ad esso più vicine, i ricercatori hanno potuto determinare come le mani della maggior parte dei nostri antenati ominidi fossero molto simil tanto a quelle “primitive” del presunto antenato comune e che a quelle dell’uomo moderno, presentandosi quindi come una sorta di linea continua e priva di deviazioni di rilievo. Solo una specie fossile devia in modo significativo da questo schema: Ardipithecus ramidus. Questo antico primate vissuto tra 5,5 e 4,5 milioni di anni fa aveva subito attirato l’attenzione dei paleontologi che lo avevano riconosciuto come molto vicino al presunto antenato comune fra i generi Homo e Pan. Da subito gli ambienti accademici si erano divisi in due fazioni che lo ritenevano un diretto antenato della nostra specie oppure del moderno scimpanzé. Recenti ricerche che hanno trovato convincenti connessioni anatomiche fra Ardipithecus ramidus e i più antichi ominidi sembravano aver chiuso la questione a favore dei primi; ma forse la ricerca Almécija e colleghi può ridare fiato alla seconda fazione. La paleontologia è un rompicapo mai risolto del tutto.
Riferimenti:
Almécija S, Smaers JB, Jungers WL. The evolution of human and ape hand proportions. Nature Communications. 2015 Jul 14;6:7717. doi: 10.1038/ncomms8717.
Kimbel WH, Suwa G, Asfaw B, Rak Y, White TD. Ardipithecus ramidus and the evolution of the human cranial base. Proceedings of the National Academy of Sciences USA. 2014 Jan21; 111: 948-53. doi: 10.1073/pnas.1322639111.