Addio a Elisabeth Vrba, la moschettiera dell’evoluzione

Elisabeth Vrba 2009 01

Scomparsa a 82 anni, Elisabeth Vrba lascia un’eredità rivoluzionaria nella teoria dell’evoluzione. Telmo Pievani la ricorda ripercorrendo i suoi numerosi contributi scientifici

Stephen J. Gould dedicò il suo monumentale testamento scientifico del 2002, La struttura della teoria dell’evoluzione, ai due colleghi che sentiva più vicini a sé, definendoli i suoi compagni moschettieri: i paleontologi Niles Eldredge ed Elisabeth Vrba. Con loro aveva condiviso molte battaglie scientifiche per un’estensione della teoria evoluzionistica neodarwiniana che andasse oltre il riduzionismo genico, il gradualismo stretto, l’adattazionismo, recuperando l’originale pluralismo di Darwin stesso. Il 5 febbraio scorso Elisabeth Vrba è spirata a New Haven all’età di 82 anni, per i postumi di una caduta. Nel 2003 era stata ospite al Festival della Scienza di Genova proprio per ricordare Gould e per celebrare l’edizione italiana di quel libro, la prima non in inglese.

Elisabeth Vrba era ingiustamente poco nota al pubblico italiano. Nata ad Amburgo nel 1942, orfana di padre a due anni, si era trasferita con la madre in Namibia. Prese il dottorato in zoologia e paleontologia all’Università di Cape Town, dove condusse studi fondamentali sull’evoluzione dei mammiferi africani perlustrando le grotte calcaree del Transvaal (inclusa Sterkfontein, abitata da australopitecine). Nel 1986 si trasferì a Yale, dove rimase per il resto della sua brillante carriera. A Vrba dobbiamo alcune delle formulazioni più rilevanti della teoria della macroevoluzione, in particolare l’ipotesi dei “turnover pulses”, un’estensione della teoria degli equilibri punteggiati secondo cui in alcuni episodi cruciali della storia naturale, a causa di cambiamenti climatici e ambientali su larga scala, le specie subiscono un rapido processo di avvicendamento dovuto a molteplici estinzioni e speciazioni coordinate fra loro. Creatività e distruzione, insieme.

In particolare, Vrba comprese che all’inizio del Pleistocene la frammentazione degli habitat causata dal cambiamento climatico produsse una radiazione adattativa in molti gruppi di mammiferi africani, compreso il nostro, gli ominini. Un cambiamento ambientale rapido, intorno a 2,5 milioni di anni fa, rese vani i precedenti adattamenti di molti mammiferi, obbligandoli alla migrazione verso habitat congeniali, all’estinzione oppure alla sopravvivenza grazie a riadattamenti e diversificazioni. La frammentazione delle nicchie ambientali moltiplicò le speciazioni e le colonizzazioni di nuovi habitat, innescando rapidi processi di avvicendamento fra specie (il turnover pulse, appunto). Forse proprio da quello scombussolamento climatico erano emerse, fra le australopitecine, le prime forme del genere Homo. Qualcosa di simile era accaduto 5 milioni di anni fa. L’idea, oggi ancora discussa, ebbe comunque il merito di evidenziare il ruolo dei cambiamenti ecologici globali nell’evoluzione dei mammiferi africani. L’esistenza di un drammatico collo di bottiglia nelle popolazioni umane iniziato 900mila anni fa, causato dal raffreddamento climatico, ha recentemente confermato una delle sue previsioni.

Vrba propose inoltre che i trend evolutivi di lungo periodo (per esempio la crescita continua del cervello nel genere Homo) fossero dovuti a un fenomeno di “cernita di specie” (species sorting), cioè di sopravvivenza differenziale non solo fra individui, ma anche fra intere specie, dovuto alle caratteristiche delle popolazioni che compongono le specie stesse. Qui sorting (vaglio) è termine meno forte di “selezione”, perché non implica l’esistenza di tratti di specie, ereditabili, che ne decretano la maggiore o minore fitness a livello di specie, bensì il propagarsi alla specie di proprietà degli organismi.

A suo avviso infatti l’evoluzione avviene a più livelli gerarchici, dai geni alle specie e agli ecosistemi, con effetti che possono propagarsi da un livello all’altro, sia top down sia bottom up (scrisse di questo nel 1984 insieme a Niles Eldredge). La selezione di adattamenti fra gli organismi (per esempio, essere generalisti o specialisti) può generare effetti concomitanti indiretti e incidentali, a un livello superiore, sui tassi di speciazione (“ipotesi dell’effetto”). I generalisti tendono a speciare di meno e a restare più stabili. Gli specialisti a frammentarsi in più specie, che durano meno.

Studiando le specie di antilopi e di altre famiglie del Pliocene in Africa meridionale, Vrba nel 1988 formulò poi l’ipotesi della “resistenza alle perturbazioni”, secondo la quale l’estinzione corrisponde al superamento di una soglia critica: il biota è conservatore e si oppone al cambiamento, finché la perturbazione ambientale diventa insostenibile e porta all’estinzione e alla sostituzione di specie in un turnover pulse globale. Nel 1983 su Science spiegò che la macroevoluzione (il cambiamento evolutivo a livello delle specie e superiore ad esse, innescato da forti perturbazioni ecologiche) è una dimensione autonoma non del tutto estrapolabile dall’accumulo di piccole modificazioni nelle frequenze geniche.

Questi soli esempi illuminano già abbastanza l’originalità assoluta del suo contributo anti-riduzionista e pluralista alla teoria evoluzionistica, ma il nome di Elisabeth Vrba è associato soprattutto a un neologismo, da lei coniato nel 1982 e presto adottato dal collega e amico paleontologo Stephen J. Gould: exaptation, ovvero cooptazione funzionale. Oggi si definiscono in questo modo tutti quei tratti che nel corso dell’evoluzione si sono affermati in connessione a una certa funzione adattativa (oppure senza alcuna funzione – gli spandrels – per esempio come effetti collaterali di altri cambiamenti, come vincoli strutturali o come prodotti di processi neutrali quali la deriva genetica) e poi sono stati ingaggiati in compiti adattativi del tutto differenti. In altri termini, la funzione attuale di un tratto non coincide necessariamente con la sua origine storica. La frequenza di queste conversioni funzionali opportunistiche (oggi osservate a tutti i livelli: dalle rifunzionalizzazioni di geni al riutilizzo di aree neurali) ci insegna che l’evoluzione non è un processo di affinamento ingegneristico ottimale, ma un bricolage che parte dall’esistente (con i suoi vincoli e la sua storia pregressa) e lo rimaneggia al mutare delle circostanze ambientali. L’evoluzione è trasformazione del possibile.

Indipendente, libera, insofferente verso tutto ciò che la distoglieva dalla ricerca, non ha scritto libri di successo, ma i suoi articoli sono ancora molto letti. Elisabeth era una specialista – e come tale forse la massima autorità al mondo su evoluzione, tassonomia, paleobiogeografia, filogenesi e paleoecologia dei bovidi – ma anche una raffinata teorica. Parlava veloce e scriveva con una grande chiarezza, che rispecchiava la sua lucidità di ragionamento e di critica. Le mancava sempre il tempo e lo ha saputo spendere bene. Amava ripetere che il suo interesse era superare i confini della scienza, non navigare in mari tranquilli e già solcati da altri. Senza riflettori né clamori, c’è riuscita. Oggi chi si occupa di macroevoluzione è come un nano sulle spalle di questa grande moschettiera.

Foto: Elisabeth Vrba nel 2009 allo Senckenberg Museum, Francoforte sul Meno, Germania. Di GerbilCC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons