Le domande irrisolte dell’evoluzione. Esiste una tendenza alla complessità?

Dai tempi della teologia naturale, la nostra visione della natura è decisamente cambiata. Eppure, la teleologia sembra rientrare dalla finestra: davvero esiste, nella storia della vita, una tendenza all’aumento della complessità? E cosa si intende, dopo tutto, per complessità? Sofia Belardinelli (Il Bo Live) lo ha chiesto al professor Daniel McShea

Per secoli, la filosofia naturale è stata strettamente legata alla riflessione teologica: la natura, creazione divina, non poteva che rispecchiare la bontà e la perfezione del suo creatore. Tale perfezione – come rivelato nelle Scritture – non poteva che culminare nell’uomo, la creatura fatta “a immagine e somiglianza di Dio”, summa della creazione stessa.

In quest’ottica, era chiaro che il graduale sviluppo delle forme di vita non fosse casuale, ma avesse un fine: la comparsa dell’uomo. Ecco perché, nel grande sforzo classificatorio culminato nell’opera di Carlo Linneo, i grandi naturalisti del Settecento ordinarono tutte le forme viventi in una scala di crescente complessità e perfezione, una “grande catena dell’essere” che dai più semplici invertebrati portava, attraverso l’uomo e gli angeli, fino alla divinità.

Era implicito, in questa visione teleologica – orientata cioè verso un fine –, che vi fosse stato, nel corso della storia della vita, un progressivo aumento della complessità dei viventi, quantificabile prima di tutto su base morfologica.

La teoria evoluzionistica darwiniana, pur determinando una decisa laicizzazione delle scienze della vita, non scalfì totalmente questa visione teleologica, profondamente radicata nel modo in cui noi umani interpretiamo la realtà. Da allora, tuttavia, gli avanzamenti scientifici e la totale separazione fra la scienza e la teologia hanno determinato l’abbandono dell’approccio teleologico in favore di una visione ben più materialistica e deterministica della realtà naturale.

Rimane, tuttavia, ancora aperta la questione dell’effettivo verificarsi di un aumento di complessità nel corso dell’evoluzione della vita sulla Terra. Che le forme di vita odierne siano più complesse rispetto agli organismi primordiali sembra innegabile; tuttavia, cosa si intende per complessità? Tale aumento di complessità è stato orientato da leggi e forze o è meramente il frutto del caso? La vita ha raggiunto il massimo di complessità possibile?

Si tratta di quesiti ai quali la scienza non ha ancora saputo dare una risposta definitiva, ma intorno ai quali la ricerca continua. Tra gli scienziati che si sono occupati di questo tema al confine tra scienza e filosofia, vi è Daniel McShea, docente di biologia alla Duke University di Durham, negli Stati Uniti, a cui abbiamo posto alcune domande.

L’intervista completa a Daniel McShea. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Elisa Speronello

C’è davvero, in natura, una tendenza all’aumento della complessità?

«In via preliminare, bisogna capire cosa si intenda per complessità. Possiamo parlare di complessità riferendoci a quanti tipi diversi di parti vi sono in un organismo – quanti organi, quanti tipi di cellule, quanti tipi di molecole. Oppure possiamo di parlare di complessità in senso “verticale”, riferendoci ai livelli in cui i sistemi, sempre più estesi, si innestano uno dentro l’altro. Considerando questa seconda accezione di complessità, possiamo affermare con una relativa certezza che sì, nel corso della storia della vita essa è cresciuta: ci sono i dati a dimostrarlo. Per quanto riguarda invece la prima accezione, quella “orizzontale”, dobbiamo ammettere che non abbiamo risposte.

In ogni caso, è essenziale tenere ben distinta la ricerca di una tendenza da quella di un risultato. Quando affermiamo che si è verificato, nel corso del tempo evolutivo, un aumento di complessità, ci riferiamo al risultato, che è effettivamente sotto i nostri occhi, e che i dati possono confermare. Non abbiamo elementi, invece, per esprimerci sull’esistenza di una tendenza a che questo fenomeno si verificasse.

La scienza sembra smentire una visione teleologica: dobbiamo ammettere che non vi sia stata alcuna forza, esterna o interna, a rendere necessario l’aumento di complessità. La storia che siamo in grado di raccontare è meccanicistica: implica il caso, i meccanismi di selezione naturale, ma nessun fine prestabilito».

Se non doveva andare così, allora la complessità raggiunta finora dalle forme di vita può ancora aumentare, oppure improvvisamente diminuire?

«Certo, la complessità può diminuire: in questo caso si parla di regressione, ed è un fenomeno abbastanza comune. Pensiamo alla fauna interstiziale, un insieme di organismi che vive in ambienti umidi, tra i granelli di sabbia o tra le rocce di zone costiere o ripariali. Molti di essi hanno come antenati filogenetici animali ben più complessi, ma in risposta alle particolari condizioni ambientali, la selezione naturale ha favorito una riduzione della complessità morfologica, cioè la diminuzione del numero di parti del corpo.

Sono molti i casi simili a quello della fauna interstiziale. Ad oggi, ad esempio, non si sa con certezza se, nel passato evolutivo, vi siano stati più aumenti o più diminuzioni della complessità. Ancora una volta, tuttavia, guardando alla storia della vita, sembra intuitivamente evidente che, al netto di circoscritti eventi di regressione, la vita in generale sia stata dominata da una tendenza all’aumento della complessità: tra i primi organismi unicellulari e gli attuali animali – rettili, anfibi, pesci, uccelli e mammiferi – la differenza è evidente.

Eppure, la ragione potrebbe essere più semplice di quanto ci aspettiamo: il grado di complessità della vita dipende dalle caratteristiche del sistema nel quale ci troviamo. Per le condizioni contingenti nelle quali si è sviluppata la vita sulla Terra, c’è un minimo di complessità al di sotto del quale non si può andare. Da quel minimo, la complessità può solo aumentare: e così, in natura, vi è una tendenza passiva all’aumento di complessità, ad allontanarsi cioè da questo minimo; a partire da questa, poi, si sviluppa l’alternarsi di progressioni e regressioni».

Ci sono diversi livelli di complessità: orizzontale e verticale, microscopica e macroscopica. Come conciliarli in una visione unitaria?

«Sono convinto – afferma Daniel McShea – che la complessità sia un concetto che può essere compreso solo se posto in relazione ai diversi livelli.

Se dovessimo misurare, ad esempio, la complessità di un pesce, cosa dovremmo valutare? Guardiamo alla sua complessità sul piano molecolare: calcolando solo i prodotti genetici, troveremmo che vi sono circa 15.000 tipi diversi di molecole in un pesce. Tuttavia, un pesce ha “solo” 120 tipi di cellule: sul piano cellulare, dunque, la sua complessità dovrebbe essere ritenuta minore.

Dovremmo chiederci, a questo punto, quale sia la “vera” complessità: la risposta è che una “vera” complessità non esiste. La complessità non può mai essere intesa in senso assoluto, ma solo in riferimento al livello considerato. Quindi, l’ipotetica domanda “qual è la reale complessità del pesce?” è errata: è una “non-domanda”».

Quindi, caso o teleologia: c’è un “vincitore”?

«Be’, dipende da cosa intendiamo per teleologia. Molti attribuiscono a questo termine un significato religioso, ma dobbiamo ricordare che la biologia evoluzionistica ha ampiamente dimostrato di non aver alcun bisogno della religione per fornire una spiegazione convincente della realtà.

Accantonando, dunque, l’aspetto religioso, dovremmo sostituire alla teleologia il concetto di forza, di legge: possiamo ragionare, allora, della contrapposizione tra il ruolo del caso e il ruolo di leggi o forze, nell’evoluzione della vita. La mia visione è che vi sia un fondamento teoretico per ritenere che la crescita di complessità non sia frutto del caso, ma che sia stata determinata da leggi».

Da una legge in particolare, elaborata proprio da Dan McShea insieme al filosofo Robert Brandon: la Zero Force Evolutionary Law, definita da Brandon e McShea “la prima legge della biologia”.

«Il principio alla base di questa legge è semplice», spiega McShea. «Dato un certo numero di parti identiche, se è data loro la possibilità di variare senza l’intervento di alcuna forza esterna, come la selezione naturale, esse tenderanno a diversificarsi, e questo porterà ad un aumento della complessità. Si tratta di un modello ideale: nella realtà non si verifica mai una situazione in cui la diversificazione può agire indisturbata senza l’intervento di alcuna forza esterna.

Al contrario, quel che riscontriamo nella realtà è un aumento della complessità tutto sommato limitato: comparando questo dato reale con la nostra ipotesi ideale, sembra di dover ammettere che la tendenza passiva all’aumento di complessità sia frenata da forze e leggi biologiche costantemente in azione.

Teorizzare la Zero Force Evolutionary Law ci ha permesso di comprendere che, al contrario di quanto comunemente si ritiene, l’aumento di complessità non è sempre un bene per la vita, tant’è che la selezione naturale non lo favorisce, se non in rari casi, ma al contrario tende a favorire la semplicità.

Delineata questa accezione molto laica di teleologia, devo ammettere che sì, in un certo senso le forze che agiscono in natura per limitare la proliferazione di parti e l’aumento di complessità sono teleologiche. Tuttavia, si tratta di una teleologia che si muove nella direzione opposta a quella che ci aspetteremmo secondo il senso comune: non una tendenza orientata verso l’aumento di complessità, ma un insieme di forze costantemente in azione per limitare la naturale tendenza alla complessità, e che al contrario premiano la semplicità. Il miracolo, dunque, non è che siamo così complessi; è che non siamo ben più complessi di così!».

Tutto questo è valido per la complessità “orizzontale”. Cosa possiamo dire, invece, della complessità sul piano macroevolutivo? Anche qui ci sono leggi in azione?

«La crescita di complessità in termini di gerarchia dei sistemi biologici è una delle poche tendenze precisamente documentate lungo tutto il corso della storia della vita: sappiamo quali sono stati i passaggi, sappiamo quando sono avvenuti i “salti” da un livello a quello superiore, siamo in grado di riconoscere la direzione di questo aumento.

Si tratta di un percorso piuttosto semplice, costituito da quattro momenti di svolta.

Il primo: la comparsa dei batteri, i primi organismi che hanno popolato la terra, circa 3,9 miliardi di anni fa.

Il secondo: avvenuto circa 2 miliardi di anni fa, quando gruppi di batteri hanno iniziato a “consociarsi”, formando le prime cellule eucariotiche. Le cellule eucariotiche e, ad esempio, i mitocondri che si trovano al loro interno nascono come insiemi di batteri, dapprima autonomi, che convergono a formare un organismo simbionte. Ecco qui il primo esempio di “innesto” di un livello dentro l’altro: il più complesso contiene in sé il meno complesso.

Il terzo passaggio consiste nella pluricellularità. Si verifica, stando ai più antichi fossili di organismi pluricellulari rinvenuti, tra gli 800 e i 600 milioni di anni fa.

Infine, il quarto passaggio si verifica quando gruppi di organismi multicellulari si uniscono, a loro volta, per formare organismi più complessi: nascono le colonie. I primi ritrovamenti fossili, risalenti a 480 milioni di anni fa, sono i briozoi, organismi simili ai coralli, seppur non filogeneticamente affini a questi ultimi.

Analizzando questi quattro momenti di svolta nella storia della vita, si può notare come l’aumento di complessità sembra aver progressivamente accelerato: tra un “salto” e l’altro, l’intervallo temporale è sempre più ristretto. Postulando che questa tendenza fosse continuata senza intoppi fino ad oggi, la vita dovrebbe aver ormai raggiunto un altissimo livello di complessità. Eppure, il meccanismo sembra essersi fermato: il quinto livello non è mai stato raggiunto. Perché?

La vera domanda irrisolta, in relazione alla complessità, è proprio questa: perché la complessità gerarchica dei sistemi biologici non ha continuato ad evolversi al di là del livello della colonialità?

Sembra, invece, che anche le forme di vita più morfologicamente e gerarchicamente complesse – noi stessi, ad esempio – siano ancora fondamentalmente legate al primo livello, il più semplice. Nonostante questo progressivo innestarsi dei livelli precedenti nei successivi, gli organismi più complessi sono essenzialmente dipendenti dai batteri: ogni essere umano porta dentro di sé, oltre alle molteplici simbiosi evolutive già menzionate, un immenso ecosistema di batteri e altri microrganismi. All’interno di ognuno di noi sono rappresentati tutti i livelli, dai singoli batteri, agli eucarioti, agli organismi multicellulari, alle colonie».

Noi umani, il presunto culmine della creazione, non siamo qualitativamente diversi dai batteri, alla base del cammino evolutivo della vita sulla Terra: la grande catena dell’essere è definitivamente smentita.