Gastronomia darwiniana, atto secondo

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Avevo dato notizia  poco piu’ di un anno fa dello studio compiuto da Paul W. Sherman, dell’Universita’ di Cornell, sull’applicazione di una prospettiva darwiniana per spiegare l’uso delle spezie nella cucina tradizionale di molti paesi del mondo (per risalire alla notizia del 9/9/2005 digitate Sherman nel motore di ricerca, nel campo Descrizione). A riprova delle tesi sostenute dall’autore in quel […]

Avevo dato notizia  poco piu' di un anno fa dello studio compiuto da Paul W. Sherman, dell'Universita' di Cornell, sull'applicazione di una prospettiva darwiniana per spiegare l'uso delle spezie nella cucina tradizionale di molti paesi del mondo (per risalire alla notizia del 9/9/2005 digitate Sherman nel motore di ricerca, nel campo Descrizione). A riprova delle tesi sostenute dall'autore in quel lavoro, propongo questo articolo, pubblicato a circa due anni di distanza dal precedente sulla rivista Evolution and Human Behavior, dove viene messa alla prova una previsione critica per testare la bonta' dell'ipotesi avanzata, e cioe' che le popolazioni umane avrebbero "scoperto" e mantenuto l'uso delle spezie nella preparazione dei cibi avendone ricavato il vantaggio delle proprieta' battericide e batteriostatiche di queste ultime. Se il primo lavoro si era concentrato sulle ricette a base di carne, dove il vantaggio del controllo dei patogeni era considerato determinante, Sherman voleva verificare la veridicita' di una importante previsione che discendeva appunto dal suo modello, e cioe' che l'uso delle spezie nelle ricette vegetariane avrebbe dovuto registrare una significativa diminuzione rispetto alle ricette in cui si aveva la presenza della carne: i vegetali hanno infatti maggiori difese biochimiche nei confronti dell'attacco dei patogeni batterici e fungini; inoltre la loro struttura ricca di cellulosa e lignina crea un'ulteriore barriera meccanica che limita l'attacco di questi agenti. Di conseguenza diminuiscono i rischi legati al consumo di questo tipo di cibi anche quando essi non sono al massimo grado di freschezza.

Ebbene, questa previsione viene pienamente confermata nel secondo studio: dall'analisi di piu' di duemila ricette tradizionali, provenienti da 36 paesi di tutto il mondo e rappresentanti di ogni latitudine e cultura del globo, si evince che in effetti le ricette dove sono presenti solamente i vegetali vedono impiegate molte meno spezie. Ancora una volta, comunque, l'uso delle spezie e' legato alla temperatura media annuale del paese o della regione considerati, ma nel caso delle ricette vegetariane l'aumento delle spezie utilizzate man mano che cresce la temperatura e' decisamente meno drammatico.

Mentre Sherman riafferma con forza l'ipotesi antimicrobica come causa primaria dell'utilizzo delle spezie in cucina, in questo lavoro vengono confutate pressoche' definitivamente, e con valide argomentazioni, le altre due ipotesi che vi si contrappongono, e cioe' quella del cosiddetto cover-up (cioe' dell'uso delle spezie per coprire l'odore cattivo del cibo in decomposizione) e quella del salt alternative (cioe' dell'uso delle spezie laddove i cibi siano poveri di sodio, in quanto meno protetti di quelli ricchi in sodio dall'azione degli agenti patogeni). Sara' interessante seguire ulteriori sviluppi da parte dell'autore sulla lettura in chiave evoluzionistica delle tradizioni culturali umane in campo gastronomico.

Paola Nardi