Genomi dall’età della pietra
Da tempo i paleontologi si ritrovano ad affrontare il problema di come ricavare il maggior numero di dati utili dai campioni di ossa di organismi estinti, danneggiando il meno possibile questo prezioso patrimonio. Purtroppo i campioni da cui ricavare DNA per gli studi genomici sono pochi e proprio per questo molto preziosi, specie se si tratta di campioni provenienti da […]
Da tempo i paleontologi si ritrovano ad affrontare il problema di come ricavare il maggior numero di dati utili dai campioni di ossa di organismi estinti, danneggiando il meno possibile questo prezioso patrimonio. Purtroppo i campioni da cui ricavare DNA per gli studi genomici sono pochi e proprio per questo molto preziosi, specie se si tratta di campioni provenienti da ominidi. Inoltre il DNA antico porta con sé gli inevitabili segni del tempo, rendendo spesso difficile l’amplificazione e la corretta analisi della sequenza, poiché durante la PCR vengono amplificati prevalentemente frammenti di DNA moderno contaminante non danneggiato.
A questi inconvenienti vengono ora incontro tecniche d’avanguardia come la PCR in emulsione, che permette di aumentare la quantità di DNA ottenuta dai campioni, riducendo quindi la quantità di materiale che viene distrutto nell’analisi, oltre a diverse tecniche di ibridazione, volte ad amplificare e sequenziare selettivamente regioni di DNA genomico.
Per interpretare in maniera corretta i risultati dei sequenziamenti inoltre, i ricercatori hanno imparato a sfruttare proprio quelle caratteristiche del DNA antico che sembravano renderlo più complesso da studiare, ovvero i segni lasciati dal tempo. Analizzando studi precedenti effettuati su geni di Neanderthal, che avevano dato risultati contradditori, sono riusciti a scoprire che alcuni di quei risultati erano dovuti a contaminazione da parte di DNA moderno e ciò è stato possibile perché i frammenti amplificati non presentavano la frammentazione ed i cambiamenti di sequenza caratteristici del DNA antico.
Nuove tecnologie e nuove strategie, dunque, permettono sempre più di avvicinarsi alla decifrazione dei genomi antichi, aprendo il campo ad un grande numero di possibili studi che consentiranno di far luce non solo sul passato delle specie animali ma anche e soprattutto sul nostro passato, approfondendo e migliorando l’attendibilità dei molti studi già intrapresi sui resti dell’uomo di Neanderthal.
Silvia Demergazzi
Fonte dell’immagine: Wikimedia Commons