Il falaropo sfida Newton

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Già 150 anni orsono Darwin aveva dimostrato il parallelismo perfetto esistente negli uccelli tra la forma del becco e il modo in cui si nutrono. Oggi, un’equipe di matematici e ingegneri del MIT (Massachussets Institute Of Technology) ha spiegato esattamente in che modo alcuni uccelli costieri usano il loro becco lungo e sottile per trasportare il cibo. La ricerca, pubblicata […]

Già 150 anni orsono Darwin aveva dimostrato il parallelismo perfetto esistente negli uccelli tra la forma del becco e il modo in cui si nutrono. Oggi, un’equipe di matematici e ingegneri del MIT (Massachussets Institute Of Technology) ha spiegato esattamente in che modo alcuni uccelli costieri usano il loro becco lungo e sottile per trasportare il cibo. La ricerca, pubblicata su Science, analizza il modo in cui il falaropo (genere Phalaropus) riesce a sfruttare le interazioni di superficie tra il proprio becco e le gocce d’acqua per spingere pezzi di cibo dalla punta del becco stesso alla bocca.

Queste interazioni di superficie dipendono dalle proprietà chimiche dei liquidi coinvolti, così che il falaropo (come anche altre venti specie di uccelli che usano questo meccanismo) è estremamente sensibile a qualsiasi cosa che possa contaminare la superficie dell’acqua, come detersivi o petrolio. “Alcune specie dipendono esclusivamente da questo meccanismo per nutrirsi”, dice John Bush del MIT, primo autore della ricerca, “e sono quindi particolarmente danneggiati dalle perdite di petrolio”.

Il particolare meccanismo di nutrimento di questa specie è cosa nota da molto tempo: l’animale vola sopra l’acqua in stretti cerchi, creando un vortice che attira piccoli crostacei in superficie, poi becchetta la superficie dell’acqua, catturando minuscole gocce che contengono prede intrappolate. Durante questo processo, comunque, il becco dell’animale punta verso il basso, costringendolo a “sconfiggere” la forza di gravità per far arrivare le gocce d’acqua dalla punta del becco alla bocca.

Come questo potesse essere possibile era un mistero, fino ad oggi. Quel che era sicuro era il ruolo della tensione superficiale delle singole gocce. L’equipe del MIT ha dunque costruito un modello meccanico del becco del falaropo, che ha permesso loro di studiare il processo al rallentatore. Processo che dipende da un’interazione definita isteresi dell’angolo di contatto, quella stessa interazione, ad esempio, che fa sì che le gocce di pioggia rimangano adese ai vetri delle finestre. Quello del falaropo potrebbe essere il primo caso conosciuto in cui l’isteresi dell’angolo di contatto permette il movimento delle gocce invece che impedirla.

Come funziona questo processo? Quando il becco si chiude, l’estremità della goccia che è rivolta verso la bocca si sposta verso di essa, mentre l’altra rimane ferma. Quando il becco si apre, i “ruoli” si scambiano. Questo permette alle gocce di muoversi ad una velocità di circa un metro al secondo. L’elevata efficienza di questo processo è legata alla forma del becco e, di conseguenza, al suo angolo di apertura e chiusura. Una variazione anche minima dell’angolo di apertura del becco potrebbe ridurre la velocità della goccia di un fattore 10.

La funzionalità del processo è anche legata alla cosiddetta bagnabilità del becco, cioè una misura della tendenza del liquido a disporsi in gocce piuttosto che a distribuirsi su una superficie più ampia. Il petrolio, ad esempio, è molto più “bagnante” dell’acqua, per cui tende meno a formare gocce; quindi, se il becco del falaropo viene immerso in petrolio invece che in acqua il processo non funziona.

Gabriele Ferrari

Fonte dell’immagine: Wikimedia Commons