Il ritorno degli animali estinti
Il sequenziamento del genoma di due mammut lanosi riapre il dibattito sulla “resurrezione” di animali estinti
Nel 2009, un esemplare di stambecco dei Pirenei (Capra pyrenaica pyrenaica), estinto nel 2000, è stato riportato in vita tramite clonazione. Vita che si è però rivelata molto breve: dopo solo sette minuti, un difetto fisico ai polmoni vi ha posto fine.
Quello di P. ibex è il primo caso di animale estinto ricreato in laboratorio, al quale ne sono seguiti altri. Tutti morti dopo al massimo qualche giorno. Simili esperimenti rientrano nell’ambito della de-estinzione, un filone di ricerca che suscita diverse controversie. Vale davvero la pena, si chiedono i critici, cercare di riportare in vita animali estinti spendendo tempo e risorse che potrebbero essere dedicate alla salvaguardia delle specie in pericolo? I sostenitori della de-estinzione criticano la debolezza di questo argomento e ribattono sottolineando che si tratta di una grande opportunità per la scienza, senza contare che comunque gli studi in questa direzione darebbero un forte contributo al salvataggio e al mantenimento di specie a rischio di estinguersi. Il dibattito è tuttora aperto, sia dal punto di vista scientifico sia da quello etico.
Le tecniche su cui gli scienziati puntano, sia per le specie estinte, sia per quelle a rischio di estinzione, sono la clonazione e gli accoppiamenti selettivi. La prima è la più gettonata ma vi sono situazioni in cui anche la seconda può essere efficace. Anche nel caso di animali estinti. L’uro (Bos taurus primigenius), per esempio, è un bovino scomparso nel 17° secolo; secondo alcuni scienziati, il suo genoma potrebbe venir ricostruito e individuato nei bovini moderni, per poi incrociare quelli che ne portano ancora delle tracce.
Il grande problema degli animali estinti è rappresentato dal materiale genetico di partenza, che è molto difficile da reperire, spesso incompleto e, nella maggior parte dei casi, contaminato da DNA batterico. Dimenticatevi la storia dell’ambra di Jurassic Park: quella via pare non essere percorribile.
Ciò non significa che non sia comunque possibile ottenere frammenti di DNA di animali estinti per poi ricostruirli in laboratorio. Lo dimostra un recente studio, pubblicato su Current Biology, che ha portato al sequenziamento del genoma quasi completo di due esemplari di mammut lanoso (Mammuthus primigenius). Il primo è vissuto circa 4.300 anni fa sull’isola di Wrangel, nell’Oceano Artico. Il secondo risale a quasi 45.000 anni fa e viveva nella Siberia nordorientale.
Sulla base dei risultati ottenuti, i ricercatori hanno potuto trarre alcune conclusioni sulla storia evolutiva e demografica di questi giganti del passato. Confrontando il genoma di due esemplari così distanti fra loro nel tempo, sono state infatti trovate prove di un declino genetico del mammut di Wrangel, caratterizzato da una ridotta eterozigosi e da tracce di accoppiamenti fra consanguinei. Un calo di diversità genetica che ha preceduto l’estinzione di quella che a oggi è riconosciuta come l’ultima popolazione di mammut lanosi.
Ma forse, anche grazie a questo grosso lavoro di ricostruzione e sequenziamento, un domani potremmo dover rivedere il nostro concetto di estinzione. O forse no. Il dibattito è aperto.
Credit image: http://www.plosbiology.org/article/slideshow.action?uri=info:doi/10.1371/journal.pbio.0060099&imageURI=info:doi/10.1371/journal.pbio.0060099.g001, from C. Sedwick (1 April 2008). “What Killed the Woolly Mammoth?”. PLoS Biology 6 (4): e99. DOI:10.1371/journal.pbio.0060099. Autore Mauricio Antón, via Wikimedia Commons