L’ uomo e le scimie
Filippo De Filippi era all’epoca uno dei massimi naturalisti italiani, tanto apprezzato che di lì a poco sarebbe stato incaricato dal governo italiano di partecipare alla spedizione nei mari orientali a bordo della corvetta Magenta (sarebbe morto, tre anni più tardi, nel corso della missione).Il testo del discorso conobbe intanto una fortuna inaspettata. Pubblicato inizialmente sulla rivista «Il Politecnico» di […]
Filippo De Filippi era all’epoca uno dei massimi naturalisti italiani, tanto apprezzato che di lì a poco sarebbe stato incaricato dal governo italiano di partecipare alla spedizione nei mari orientali a bordo della corvetta Magenta (sarebbe morto, tre anni più tardi, nel corso della missione).
Il testo del discorso conobbe intanto una fortuna inaspettata. Pubblicato inizialmente sulla rivista «Il Politecnico» di Milano, fu poco dopo stampato in forma di volumetto, accolto da un tale favore di pubblico che nell’arco di poco più di un anno se ne dovettero fare non meno di tre edizioni.
De Filippi, dopo essersi richiamato all’opera di alcuni famosi naturalisti, e in particolare a Darwin, conduce un’analisi stringente delle analogie anatomiche, fisiologiche e funzionali riscontrabili tra l’uomo e tre tipi di primati (“l’orang-utan, il chimpanzé, il gorilla”), mostrando quanto sono simili le rispettive strutture scheletriche del capo, le circonvoluzioni degli emisferi cerebrali, la conformazione degli arti, il modo di appoggiare a terra i piedi e di usare le mani. Da ciascuna, ma ancor più dall’insieme di queste comparazioni, emerge in maniera evidente la vicinanza, ovvero la connessione biologica, che unisce queste quattro specie viventi. Come testimoniano i ritrovamenti fossili più recenti, persino l’area geografica da cui esse hanno avuto origine sarebbe stata la stessa. Per questo motivo si deve concludere che l’uomo è derivato dalla scimmia, non in quanto abbia “in alcuna di queste scimie antropoidi il [proprio] stipite primitivo”, ma perché è logico supporre per tutti un progenitore comune, una forma animale andata perduta, vissuta in “epoche preumane”.
Si deve pensare “in altre parole che le scimie attuali sono il ramo cadetto, e noi il ramo principale del comune tronco genealogico”. Affermazioni di questo genere erano sconvolgenti e rivoluzionarie per quei tempi, quando nessuno si azzardava nemmeno a mettere in dubbio la sacralità dell’uomo, creatura di Dio, e la sua irriducibile diversità da ogni altro essere vivente. Ci si sarebbe potuti attendere che le sue parole avrebbero scatenato rumorose proteste e polemiche, invece, nel complesso le obiezioni furono sporadiche, tiepide e di scarsa rilevanza.
Vari i segreti di tale successo. Il primo era rappresentato dal fatto che lo studioso, consapevole della delicatezza della sua tesi, era stato molto cauto nel presentare la teoria darwiniana della selezione naturale, citandola facendo riferimento a pochi elementi essenziali. Di questi egli aveva offerto una visione rassicurante, dimostrando come una “legge di conservazione” permetta la vittoria – e quindi il successo e la supremazia biologica – delle piccole caratteristiche morfologiche e funzionali presentate dagli individui che riescono “vincitori nella lotta per l’esistenza”.
Il secondo fattore vincente fu la chiara affermazione che, se dal lato puramente materiale l’uomo è un “derivato” delle scimmie, tuttavia possiede una dignità peculiare tutta sua, riconoscibile nella dimensione spirituale, intellettiva, cosciente ed etica che lo caratterizza e lo rende assolutamente differente da ogni altro essere nell’universo. Le istanze e le preoccupazioni religiose, l’orgoglio, il vanto dell’esser uomini, venivano così salvaguardati. Non si trattava di un mero espediente oratorio da parte di De Filippi, bensì di una convinzione profonda dal momento che lo scienziato si professava credente e alla religione parve convintamente aderire fino alla fine dei suoi giorni.
L’elemento principale che spezzò sul nascere ogni obiezione, e attirò anzi su De Filippi il consenso generale, fu però che lo studioso inserì l’uomo entro la cornice dell’evoluzione trattando quest’ultima non come una teoria – soffermandosi cioè sui meccanismi e i motivi delle derivazioni tra le specie, o sulle dinamiche per la supremazia – ma come una constatazione, un elemento, un dato naturale del quale non era possibile dubitare. In realtà, già ai suoi tempi, non erano molti a dubitare. Erano oltre cinquant’anni che il concetto era stato intuito, o propugnato apertamente, da una nutrita schiera di scienziati, e la limpida e definitiva formulazione datane da Darwin non aveva fatto che rendere chiaro a tutti il nucleo essenziale e inconfutabile di questa affermazione.
Viene talvolta sottovalutato ancora oggi che con l’Origin of species il naturalista inglese compì una doppia operazione. Da un lato propose per la prima volta che una selezione naturale agisca attivamente (in aggiunta ad altri meccanismi) per determinare, attraverso il successo di certi caratteri biologici, la comparsa e l’affermazione, la scomparsa o la perdita delle specie viventi, animali tanto quanto vegetali. Dall’altro, rimise assieme tutti gli elementi, notati da lui e da altri studiosi, che comprovavano, di là da ogni possibile dubbio, che le specie sono imparentate, che si riconnettono l’una all’altra, che esistono legami reciproci evidenti, che hanno un’origine comune. Le forme viventi succedutesi nel tempo sono andate poi pian piano differenziandosi e complessificandosi, e hanno finito per “allontanarsi” in vario grado, assumendo alle ultime generazioni aspetti esteriori che manifestano più le diversità e le specificità di ciascuna, che i tratti ancestrali comuni.
Tratto dal sito dell’Università degli Studi di Firenze