La bellezza, Darwin e l’estetica evoluzionistica
Che cos’è la bellezza? Perché non c’è mai alcuna popolazione umana che non abbia sviluppato una qualche forma di senso estetico o prodotto una qualche forma di “arte”? A che cosa serve il senso del bello? È innato? A partire dalle riflessioni di Darwin, l’estetica evoluzionistica cerca con gli strumenti di rispondere a questi interrogativi fondamentali
Che cos’è la bellezza? Perché, stando a quanto ci dicono gli antropologi, pare non ci sia – e non ci sia mai stata – alcuna popolazione umana che non abbia sviluppato una qualche forma di senso estetico o prodotto una qualche forma di quella che, ai nostri occhi, appare come “arte”? A che cosa serve il senso del bello? È innato? A partire dalle rivoluzionarie riflessioni di Charles Darwin sull’origine del sense of beauty, contenute nel The Descent of Man, l’estetica evoluzionistica contemporanea cerca con gli strumenti della moderna biologia evoluzionistica di rispondere a questi interrogativi fondamentali. Tra le varie ipotesi in campo, quelle che si ispirano al concetto gouldiano di exaptation hanno riscosso particolare favore tra gli studiosi. Tuttavia, supportare con adeguate evidenze empiriche la tesi di un’origine exattiva per l’estetico e il bello è, a ben guardare, tutt’altro che un compito facile.
Che il “sense of beauty” – quel senso o inclinazione per la bellezza di cui, secondo Darwin, sono dotati non solo gli esseri umani ma anche molte altre specie animali – fosse piuttosto difficile da spiegare nei termini della teoria dell’evoluzione era ben chiaro al naturalista inglese. Nell’Origin of species (sesta edizione, del 1872), all’interno del capitolo VI dedicato alle Difficoltà della teoria, Darwin scrive: “Come il senso della bellezza nella sua forma più semplice – cioè la ricezione di un particolare piacere derivante da certi colori, forme e suoni – si sia per la prima volta sviluppato nell’uomo e negli animali inferiori, è una questione nient’affatto chiara” [1]. Nient’affatto chiara, certo, ma non del tutto oscura, tanto che nell’anno precedente la sesta edizione dell’Origin, nel 1871, Darwin aveva esposto all’interno del The Descent of Man una propria teoria dell’evoluzione del sense of beauty [2]. Qui il naturalista riconduceva il sense of beauty alle dinamiche di corteggiamento tra i due sessi, regolate dalla selezione sessuale (non dalla selezione naturale). Il bello, secondo tale lettura, fa la sua prima comparsa nel regno animale allorché individui prevalentemente di sesso maschile sviluppano ornamenti belli (piume, bargigli, code, corna ecc.) per attrarre potenziali partner sessuali femminili e contestualmente le femmine, in una dinamica strettamente co-evolutiva, sviluppano un sense of beauty che le mette in grado di valutare le qualità di bellezza degli ornamenti maschili. In un trionfo di piume, code, palchi, ma anche, progressivamente, di danze, canti, performance e nidi di strabiliante complessità (che segnano il passaggio, si noti, dalla bella ornamentazione corporea alla produzione di “oggetti” belli), la bellezza colora di sé l’intero mondo animale, non esclusivamente umano.
Anzi, non principalmente umano. Com’è noto, infatti, The Descent of Man, a dispetto del titolo dell’opera, dedica solo qualche decina di pagine in coda al volume all’applicazione della teoria della selezione sessuale alla nostra specie. È quanto rileva, ad esempio, Michael Ruse: “Charles Darwin’s two-volume The Descent of Man […] is devoted to the evolution of our own species, humankind. Except it isn’t really” [3]. Si tratta di un punto importante: la contemporanea estetica evoluzionistica, giovane e vivace indirizzo di ricerca sviluppatosi negli ultimi trent’anni all’interno della disciplina estetica, adotta sin dall’inizio come principio guida l’obiettivo di colmare il (reale o presunto) “gap” darwiniano, indirizzando l’attenzione esplicitamente sulla bellezza “umana” [4].
Che cos’è la bellezza? Perché, stando a quanto ci dicono gli antropologi, pare non ci sia – e non ci sia mai stata – alcuna popolazione umana che non abbia sviluppato una qualche forma di senso estetico o prodotto una qualche forma di quella che, ai nostri occhi, appare come “arte”? A che cosa serve il senso del bello? È innato? Tra tentazioni riduzioniste, approcci più o meno fedeli all’ispirazione darwiniana e un uso a volte illuminato altre volte un po’ “spericolato” dello strumentario concettuale della biologia evoluzionistica, il dibattito in estetica evoluzionistica si è espresso sinora in termini fondamentalmente tripartiti (pur con infinite variazioni sul tema). Le opzioni sono, ridotte all’osso, le tre seguenti: sì, il sense of beauty è un adattamento, utile alla nostra sopravvivenza e direttamente plasmato dalla selezione naturale per la funzione che assolve tuttora [5]; no, il sense of beauty non è un adattamento bensì un exaptation, cioè un’abilità evolutasi per una certa funzione (magari proprio quella sessuale, come dice Darwin) ma che è passata nel corso del tempo a funzioni assai diverse; no, il sense of beauty non è un adattamento ma un mero effetto collaterale di altri adattamenti, in sé privo di valore adattivo (però può, eventualmente, acquisirne).
Le ultime due ipotesi, in particolare, sono chiaramente ispirate all’ormai famoso concetto di exaptation introdotto da Stephen Jay Gould ed Elisabeth Vrba nel 1982, per indicare cambiamenti di funzione nei tratti biologici (exaptation di tipo 1) oppure funzionalizzazioni di tratti originariamente emersi come effetti collaterali in sé non funzionali (exaptation di tipo 2, nella terminologia gouldiana) [6]. Proprio le ipotesi exattive, nel corso degli anni, sono risultate le più allettanti per gli studiosi impegnati in estetica evoluzionistica.
Il motivo è presto detto. Generalmente, chi si occupa di evoluzione del sense of beauty umano prende come punto di partenza, magari in senso critico, la teoria di Darwin della selezione sessuale. Ora, la nostra specie oggi non si serve del sense of beauty esclusivamente (né, forse, principalmente) per valutare le qualità estetiche di potenziali partner sessuali (secondo la proposta generale darwiniana per gli animali non-umani), ma per apprezzare e giudicare pitture, tramonti, gioielli, canzoni, cieli stellati. Dev’essere dunque avvenuto, argomentano gli studiosi, un qualche shift funzionale per gli esseri umani, nei termini del tipo 1 di exaptation.
Inoltre, stando a quanto ci dicono gli studi neuroscientifici e neurobiologici, gli individui della nostra specie non hanno alcuna area cerebrale esclusivamente deputata al riconoscimento del bello, né alcuna facoltà psicologica speciale né tanto meno un gene della bellezza. Quando facciamo esperienza di una cosa bella, è una molteplicità di aree cerebrali e di competenze bio-psicologiche a essere ingaggiata di concerto e nessuna di esse lavora solo per l’estetico, ma anche per una larga varietà di altri compiti e funzioni che niente hanno a che fare con la bellezza [7]. Ciò potrebbe suggerire, propongono altri studiosi, che l’estetico e il senso della bellezza non siano adattamenti ma ri-usi di circuiti e competenze già esistenti (shift funzionale, appunto) o l’effetto collaterale del funzionamento congiunto di adattamenti più fondamentali, poi eventualmente funzionalizzato (oppure no) per sculture, paesaggi e sinfonie (exaptation di tipo 2).
L’archeologo cognitivo Steven Mithen, in un libro pubblicato nel 1996 (The Prehistory of the Mind. A search for the origin of art, religion and science) propende per quest’ultima ipotesi. La nostra capacità estetica, che secondo Mithen coincide largamente con la capacità di produrre arte, sarebbe il risultato del funzionamento congiunto di quattro capacità mentali più originarie e inizialmente del tutto prive di inter-connessioni reciproche: l’intelligenza naturale (per decodificare i segni della natura), l’intelligenza tecnica (per produrre strumenti), l’intelligenza simbolica (per attribuire significati alle cose) e l’intelligenza comunicativa (per comunicare con i co-specifici). Sarebbe stata l’invenzione del linguaggio, all’incirca tra i 30.000 e i 60.000 anni fa, a mettere per la prima volta in comunicazione questi quattro ambiti distinti, dando origine, come effetto collaterale della nuova fluidità cognitiva (cognitive fluidity) alla prima mente artistica, presumibilmente in grado di apprezzare l’arte che produce, e perciò anche mente estetica [8].
Mithen inscrive la sua proposta, in questo lavoro del 1996, all’interno della cosiddetta tesi della “Rivoluzione del Paleolitico superiore”, secondo cui grandi cambiamenti cognitivi avrebbero interessato la nostra specie all’incirca 50.000 anni fa, ex abrupto e magari sulla scia dell’invenzione del linguaggio. Oggi non sono molti i paleoantropologi e gli archeologi che sostengono tale idea, convinti piuttosto di un’emergenza a mosaico, in tempi diversi e in regioni diverse del pianeta, del cosiddetto “comportamento cognitivo moderno”. Il paleoantropologo e archeologo Francesco d’Errico è stato, in anni recenti, tra i più autorevoli critici della “Rivoluzione del Paoleolitico”. In un saggio del 2018, scritto insieme a Ivan Colagé, d’Errico suggerisce di impiegare i concetti di exaptation e di neural reuse per spiegare l’origine delle innovazioni culturali nelle comunità socio-culturali umane [9]. Anche l’uso di ornamenti – un aspetto importante della mente estetico-artistica e connesso al senso del bello – potrebbe spiegarsi in termini di exaptation culturale. A partire dall’impiego di ocra come foto-protettore per la pelle potremmo essere passati, per exaptation culturale, all’uso di ocra come pigmento (le prime attestazioni risalgono a circa 80.000 anni fa) nelle ornamentazioni del corpo (body painting), per rinforzare l’identità di gruppo, e poi all’uso di ocra come ornamento vero e proprio, con pieno significato simbolico, per suppellettili e abiti.
La studiosa Ellen Dissanayake, impegnata da oltre trent’anni in un’ampia ricognizione delle origini evolutive dell’arte e dell’estetico, fa anche lei uso del concetto di exaptation per la sua proposta interpretativa. Secondo Dissanayake, che colloca la prima emergenza delle arti e dell’estetico assai più indietro nel passato rispetto a quanto suggerito da Mithen e d’Errico, il comportamento estetico-artistico sarebbe l’exaptation di pattern comportamentali originariamente evolutisi per favorire le interazioni reciproche tra madre e figlio nelle specie ominine. Tali pattern comportamentali – raccolti da Dissanayake sotto l’ombrello generale del “making special behaviour” – avrebbero poi assunto un significato specificamente estetico-artistico in seguito alla loro rifunzionalizzazione nel contesto di comunità umane (non esclusivamente sapiens) di più ampie dimensioni, allo scopo di favorire con le arti e il comportamento estetico la coesione e l’unità del gruppo [10]. L’estetico, quindi, non avrebbe originariamente a che fare con le dinamiche di selezione sessuale bensì con la lunga infanzia di Homo.
In che modo valutare le proposte teoriche che ricorrono a exaptations e ri-usi per la spiegazione dell’origine dell’estetico? L’impiego del concetto di exaptation per rendere ragione di tratti (anatomici, comportamentali, psicologici) di Homo sapiens non è compito da prendere alla leggera, come ben spiegato da Emanuele Serrelli e Telmo Pievani in un importante articolo di pochi anni fa [11]. Bisogna infatti, perché la proposta sia valida, che si indichino in maniera dirimente: a) le strutture che sono state exattate; b) i meccanismi causali alla base della cooptazione; c) la nuova funzione assunta dalla struttura cooptata. Tutto questo però, per il sense of beauty umano, è pressoché impossibile: non c’è, come detto, una “struttura” propria dell’estetico (un circuito cerebrale specifico, una facoltà psicologica, un pattern comportamentale inequivocabilmente estetici), né si può essere più precisi in merito alle funzioni “originarie” del sense of beauty (ci mancano sufficienti dati relativi alla vita dei nostri antenati ancestrali) o ai meccanismi causali (selezione naturale? selezione sessuale?) implicati nell’eventuale ri-funzionalizzazione. Ciò non toglie, si noti, che ipotesi exattive in estetica abbiano un importante valore speculativo-regolativo come “antidoto” a derive rigidamente adattazioniste, frequenti soprattutto nelle primissime fasi della ricerca in estetica evoluzionistica.
Pievani e Serrelli suggeriscono alcune strategie per “restringere” e rafforzare le ipotesi exattative, specialmente quando l’identificazione delle strutture implicate non è facile: ad esempio ampliare il contesto filogenetico d’indagine, andando a cercare eventuali omologie dei meccanismi o strutture exattati in specie animali non-umane. È una strategia attualmente adottata da alcuni gruppi di ricerca in estetica sperimentale ed evoluzionistica (ad esempio presso l’Università di Vienna), impegnati in ricerche di estetica comparativa a cavallo tra mondo umano e non-umano. Il filosofo Stephen Davies, in un bel libro pubblicato nel 2012, The Artful Species. Aesthetics, Art and Evolution, è ancora più radicale in merito all’idea di exaptation in estetica [12]: se è così difficile da supportare adeguatamente in senso empirico, forse varrebbe la pena abbandonare il concetto e, con esso, l’organizzazione tripartita del dibattito svolto sin qui sull’origine dell’estetico (l’estetico è un adattamento? È una cooptazione funzionale? È la funzionalizzazione di un effetto collaterale?). Davies suggerisce, piuttosto, di concentrarsi sui molteplici modi in cui gli esseri umani arredano e trasformano le loro nicchie estetiche e sui processi di sviluppo che, a livello ontogenetico, consentono a un individuo della nostra specie di acquisire competenza estetica. Anche questa è una direzione di ricerca attualmente al vaglio degli studiosi e che si prospetta assai feconda in termini di potenza esplicativa. Per concludere, le ipotesi exattive in estetica sono senz’altro utili “contro-misure”, di valore speculativo-regolativo, per reagire alla proliferazione di tesi adattazioniste, specialmente nel recente passato; sotto l’egida dell’exaptation, la ricerca di omologie o convergenze dell’estetico in altre specie animali, da un lato, e il focus sulla nozione di “nicchia estetica” e di “nicchia di sviluppo estetica”, dall’altro, sembrano allo stato attuale due delle direzioni di ricerca più promettenti per gli sviluppi futuri in estetica evoluzionistica.
Mariagrazia Portera, da La Mela di Newton
NOTE [1] C. Darwin, L’origine delle specie, 6° ed. 1872, tr. it. 259. [2] C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione in relazione al sesso, 1871. [3] M. Ruse, Sexual Selection: Why Does it Play Such a Large Role in The Descent of Man? In T. Hoquet (ed.), Current Perspectives on Sexual Selection. What’s left after Darwin?, Springer, 2015, pp. 3-18. [4] Per un inquadramento generale sull’estetica evoluzionistica, mi permetto di rimandare al mio M. Portera, L’evoluzione della bellezza. Estetica e biologia da Darwin al dibattito contemporaneo, Mimesis, Milano 2015. [5] Ad esempio J. Tooby, L- Cosmides, Does Beauty Build Adapted Minds? Toward an Evolutionary Theory of Aesthetics, Fiction and Arts, “Substance”, 30, 94/95, 2001, pp. 6-27. [6] S.J. Gould, E. Vrba, Exaptation. A Missing term in the Science of Form, “Paleobiology”, 8, 1982, pp. 4-15. [7] Si veda M. Nadal, G. Puerto, Evolutionary Approaches to Art and Aesthetics, in The Cambridge Handbook of the Psychology of Aesthetics and the Arts, 2014, pp. 167-194. [8] S. Mithen, The Prehistory of Mind. A Search for the Origins of Art, Religion and Science, Thames and Hudson, London 1996. [9] F. d’Errico, I. Colagé, Cultural Exaptation and Cultural Neural Reuse: A Mechanism for the Emergence of Modern Culture and Behavior, “Biological Theory”, 2018, 13, pp. 213-227. [10] E. Dissanayake, What Is Art For?, University of Washington Press, Seattle 1988; Ead., Homo aestheticus. Where Art Comes From and Why, New York, Free Press 1992; Ead., Aesthetic Primitives: Fundamental biological elements of a naturalistic aesthetics, “Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico”, 8, 1, 2015, pp. 6-24. [11] T. Pievani, E. Serrelli, Exaptation in Human Evolution: How to Test Adaptive Vs Exaptive Evolutionary Hypotheses, «Journal of Anthropological Sciences», vol. 89, 2011, pp. 1-15, p. 12 [12] S. Davies, The Artful Species. Aesthetics, Art and Evolution, Oxford University Press, Oxford 2012.
Che il “sense of beauty” – quel senso o inclinazione per la bellezza di cui, secondo Darwin, sono dotati non solo gli esseri umani ma anche molte altre specie animali – fosse piuttosto difficile da spiegare nei termini della teoria dell’evoluzione era ben chiaro al naturalista inglese. Nell’Origin of species (sesta edizione, del 1872), all’interno del capitolo VI dedicato alle Difficoltà della teoria, Darwin scrive: “Come il senso della bellezza nella sua forma più semplice – cioè la ricezione di un particolare piacere derivante da certi colori, forme e suoni – si sia per la prima volta sviluppato nell’uomo e negli animali inferiori, è una questione nient’affatto chiara” [1]. Nient’affatto chiara, certo, ma non del tutto oscura, tanto che nell’anno precedente la sesta edizione dell’Origin, nel 1871, Darwin aveva esposto all’interno del The Descent of Man una propria teoria dell’evoluzione del sense of beauty [2]. Qui il naturalista riconduceva il sense of beauty alle dinamiche di corteggiamento tra i due sessi, regolate dalla selezione sessuale (non dalla selezione naturale). Il bello, secondo tale lettura, fa la sua prima comparsa nel regno animale allorché individui prevalentemente di sesso maschile sviluppano ornamenti belli (piume, bargigli, code, corna ecc.) per attrarre potenziali partner sessuali femminili e contestualmente le femmine, in una dinamica strettamente co-evolutiva, sviluppano un sense of beauty che le mette in grado di valutare le qualità di bellezza degli ornamenti maschili. In un trionfo di piume, code, palchi, ma anche, progressivamente, di danze, canti, performance e nidi di strabiliante complessità (che segnano il passaggio, si noti, dalla bella ornamentazione corporea alla produzione di “oggetti” belli), la bellezza colora di sé l’intero mondo animale, non esclusivamente umano.
Anzi, non principalmente umano. Com’è noto, infatti, The Descent of Man, a dispetto del titolo dell’opera, dedica solo qualche decina di pagine in coda al volume all’applicazione della teoria della selezione sessuale alla nostra specie. È quanto rileva, ad esempio, Michael Ruse: “Charles Darwin’s two-volume The Descent of Man […] is devoted to the evolution of our own species, humankind. Except it isn’t really” [3]. Si tratta di un punto importante: la contemporanea estetica evoluzionistica, giovane e vivace indirizzo di ricerca sviluppatosi negli ultimi trent’anni all’interno della disciplina estetica, adotta sin dall’inizio come principio guida l’obiettivo di colmare il (reale o presunto) “gap” darwiniano, indirizzando l’attenzione esplicitamente sulla bellezza “umana” [4].
Che cos’è la bellezza? Perché, stando a quanto ci dicono gli antropologi, pare non ci sia – e non ci sia mai stata – alcuna popolazione umana che non abbia sviluppato una qualche forma di senso estetico o prodotto una qualche forma di quella che, ai nostri occhi, appare come “arte”? A che cosa serve il senso del bello? È innato? Tra tentazioni riduzioniste, approcci più o meno fedeli all’ispirazione darwiniana e un uso a volte illuminato altre volte un po’ “spericolato” dello strumentario concettuale della biologia evoluzionistica, il dibattito in estetica evoluzionistica si è espresso sinora in termini fondamentalmente tripartiti (pur con infinite variazioni sul tema). Le opzioni sono, ridotte all’osso, le tre seguenti: sì, il sense of beauty è un adattamento, utile alla nostra sopravvivenza e direttamente plasmato dalla selezione naturale per la funzione che assolve tuttora [5]; no, il sense of beauty non è un adattamento bensì un exaptation, cioè un’abilità evolutasi per una certa funzione (magari proprio quella sessuale, come dice Darwin) ma che è passata nel corso del tempo a funzioni assai diverse; no, il sense of beauty non è un adattamento ma un mero effetto collaterale di altri adattamenti, in sé privo di valore adattivo (però può, eventualmente, acquisirne).
Le ultime due ipotesi, in particolare, sono chiaramente ispirate all’ormai famoso concetto di exaptation introdotto da Stephen Jay Gould ed Elisabeth Vrba nel 1982, per indicare cambiamenti di funzione nei tratti biologici (exaptation di tipo 1) oppure funzionalizzazioni di tratti originariamente emersi come effetti collaterali in sé non funzionali (exaptation di tipo 2, nella terminologia gouldiana) [6]. Proprio le ipotesi exattive, nel corso degli anni, sono risultate le più allettanti per gli studiosi impegnati in estetica evoluzionistica.
Il motivo è presto detto. Generalmente, chi si occupa di evoluzione del sense of beauty umano prende come punto di partenza, magari in senso critico, la teoria di Darwin della selezione sessuale. Ora, la nostra specie oggi non si serve del sense of beauty esclusivamente (né, forse, principalmente) per valutare le qualità estetiche di potenziali partner sessuali (secondo la proposta generale darwiniana per gli animali non-umani), ma per apprezzare e giudicare pitture, tramonti, gioielli, canzoni, cieli stellati. Dev’essere dunque avvenuto, argomentano gli studiosi, un qualche shift funzionale per gli esseri umani, nei termini del tipo 1 di exaptation.
Inoltre, stando a quanto ci dicono gli studi neuroscientifici e neurobiologici, gli individui della nostra specie non hanno alcuna area cerebrale esclusivamente deputata al riconoscimento del bello, né alcuna facoltà psicologica speciale né tanto meno un gene della bellezza. Quando facciamo esperienza di una cosa bella, è una molteplicità di aree cerebrali e di competenze bio-psicologiche a essere ingaggiata di concerto e nessuna di esse lavora solo per l’estetico, ma anche per una larga varietà di altri compiti e funzioni che niente hanno a che fare con la bellezza [7]. Ciò potrebbe suggerire, propongono altri studiosi, che l’estetico e il senso della bellezza non siano adattamenti ma ri-usi di circuiti e competenze già esistenti (shift funzionale, appunto) o l’effetto collaterale del funzionamento congiunto di adattamenti più fondamentali, poi eventualmente funzionalizzato (oppure no) per sculture, paesaggi e sinfonie (exaptation di tipo 2).
L’archeologo cognitivo Steven Mithen, in un libro pubblicato nel 1996 (The Prehistory of the Mind. A search for the origin of art, religion and science) propende per quest’ultima ipotesi. La nostra capacità estetica, che secondo Mithen coincide largamente con la capacità di produrre arte, sarebbe il risultato del funzionamento congiunto di quattro capacità mentali più originarie e inizialmente del tutto prive di inter-connessioni reciproche: l’intelligenza naturale (per decodificare i segni della natura), l’intelligenza tecnica (per produrre strumenti), l’intelligenza simbolica (per attribuire significati alle cose) e l’intelligenza comunicativa (per comunicare con i co-specifici). Sarebbe stata l’invenzione del linguaggio, all’incirca tra i 30.000 e i 60.000 anni fa, a mettere per la prima volta in comunicazione questi quattro ambiti distinti, dando origine, come effetto collaterale della nuova fluidità cognitiva (cognitive fluidity) alla prima mente artistica, presumibilmente in grado di apprezzare l’arte che produce, e perciò anche mente estetica [8].
Mithen inscrive la sua proposta, in questo lavoro del 1996, all’interno della cosiddetta tesi della “Rivoluzione del Paleolitico superiore”, secondo cui grandi cambiamenti cognitivi avrebbero interessato la nostra specie all’incirca 50.000 anni fa, ex abrupto e magari sulla scia dell’invenzione del linguaggio. Oggi non sono molti i paleoantropologi e gli archeologi che sostengono tale idea, convinti piuttosto di un’emergenza a mosaico, in tempi diversi e in regioni diverse del pianeta, del cosiddetto “comportamento cognitivo moderno”. Il paleoantropologo e archeologo Francesco d’Errico è stato, in anni recenti, tra i più autorevoli critici della “Rivoluzione del Paoleolitico”. In un saggio del 2018, scritto insieme a Ivan Colagé, d’Errico suggerisce di impiegare i concetti di exaptation e di neural reuse per spiegare l’origine delle innovazioni culturali nelle comunità socio-culturali umane [9]. Anche l’uso di ornamenti – un aspetto importante della mente estetico-artistica e connesso al senso del bello – potrebbe spiegarsi in termini di exaptation culturale. A partire dall’impiego di ocra come foto-protettore per la pelle potremmo essere passati, per exaptation culturale, all’uso di ocra come pigmento (le prime attestazioni risalgono a circa 80.000 anni fa) nelle ornamentazioni del corpo (body painting), per rinforzare l’identità di gruppo, e poi all’uso di ocra come ornamento vero e proprio, con pieno significato simbolico, per suppellettili e abiti.
La studiosa Ellen Dissanayake, impegnata da oltre trent’anni in un’ampia ricognizione delle origini evolutive dell’arte e dell’estetico, fa anche lei uso del concetto di exaptation per la sua proposta interpretativa. Secondo Dissanayake, che colloca la prima emergenza delle arti e dell’estetico assai più indietro nel passato rispetto a quanto suggerito da Mithen e d’Errico, il comportamento estetico-artistico sarebbe l’exaptation di pattern comportamentali originariamente evolutisi per favorire le interazioni reciproche tra madre e figlio nelle specie ominine. Tali pattern comportamentali – raccolti da Dissanayake sotto l’ombrello generale del “making special behaviour” – avrebbero poi assunto un significato specificamente estetico-artistico in seguito alla loro rifunzionalizzazione nel contesto di comunità umane (non esclusivamente sapiens) di più ampie dimensioni, allo scopo di favorire con le arti e il comportamento estetico la coesione e l’unità del gruppo [10]. L’estetico, quindi, non avrebbe originariamente a che fare con le dinamiche di selezione sessuale bensì con la lunga infanzia di Homo.
In che modo valutare le proposte teoriche che ricorrono a exaptations e ri-usi per la spiegazione dell’origine dell’estetico? L’impiego del concetto di exaptation per rendere ragione di tratti (anatomici, comportamentali, psicologici) di Homo sapiens non è compito da prendere alla leggera, come ben spiegato da Emanuele Serrelli e Telmo Pievani in un importante articolo di pochi anni fa [11]. Bisogna infatti, perché la proposta sia valida, che si indichino in maniera dirimente: a) le strutture che sono state exattate; b) i meccanismi causali alla base della cooptazione; c) la nuova funzione assunta dalla struttura cooptata. Tutto questo però, per il sense of beauty umano, è pressoché impossibile: non c’è, come detto, una “struttura” propria dell’estetico (un circuito cerebrale specifico, una facoltà psicologica, un pattern comportamentale inequivocabilmente estetici), né si può essere più precisi in merito alle funzioni “originarie” del sense of beauty (ci mancano sufficienti dati relativi alla vita dei nostri antenati ancestrali) o ai meccanismi causali (selezione naturale? selezione sessuale?) implicati nell’eventuale ri-funzionalizzazione. Ciò non toglie, si noti, che ipotesi exattive in estetica abbiano un importante valore speculativo-regolativo come “antidoto” a derive rigidamente adattazioniste, frequenti soprattutto nelle primissime fasi della ricerca in estetica evoluzionistica.
Pievani e Serrelli suggeriscono alcune strategie per “restringere” e rafforzare le ipotesi exattative, specialmente quando l’identificazione delle strutture implicate non è facile: ad esempio ampliare il contesto filogenetico d’indagine, andando a cercare eventuali omologie dei meccanismi o strutture exattati in specie animali non-umane. È una strategia attualmente adottata da alcuni gruppi di ricerca in estetica sperimentale ed evoluzionistica (ad esempio presso l’Università di Vienna), impegnati in ricerche di estetica comparativa a cavallo tra mondo umano e non-umano. Il filosofo Stephen Davies, in un bel libro pubblicato nel 2012, The Artful Species. Aesthetics, Art and Evolution, è ancora più radicale in merito all’idea di exaptation in estetica [12]: se è così difficile da supportare adeguatamente in senso empirico, forse varrebbe la pena abbandonare il concetto e, con esso, l’organizzazione tripartita del dibattito svolto sin qui sull’origine dell’estetico (l’estetico è un adattamento? È una cooptazione funzionale? È la funzionalizzazione di un effetto collaterale?). Davies suggerisce, piuttosto, di concentrarsi sui molteplici modi in cui gli esseri umani arredano e trasformano le loro nicchie estetiche e sui processi di sviluppo che, a livello ontogenetico, consentono a un individuo della nostra specie di acquisire competenza estetica. Anche questa è una direzione di ricerca attualmente al vaglio degli studiosi e che si prospetta assai feconda in termini di potenza esplicativa. Per concludere, le ipotesi exattive in estetica sono senz’altro utili “contro-misure”, di valore speculativo-regolativo, per reagire alla proliferazione di tesi adattazioniste, specialmente nel recente passato; sotto l’egida dell’exaptation, la ricerca di omologie o convergenze dell’estetico in altre specie animali, da un lato, e il focus sulla nozione di “nicchia estetica” e di “nicchia di sviluppo estetica”, dall’altro, sembrano allo stato attuale due delle direzioni di ricerca più promettenti per gli sviluppi futuri in estetica evoluzionistica.
Mariagrazia Portera, da La Mela di Newton
NOTE [1] C. Darwin, L’origine delle specie, 6° ed. 1872, tr. it. 259. [2] C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione in relazione al sesso, 1871. [3] M. Ruse, Sexual Selection: Why Does it Play Such a Large Role in The Descent of Man? In T. Hoquet (ed.), Current Perspectives on Sexual Selection. What’s left after Darwin?, Springer, 2015, pp. 3-18. [4] Per un inquadramento generale sull’estetica evoluzionistica, mi permetto di rimandare al mio M. Portera, L’evoluzione della bellezza. Estetica e biologia da Darwin al dibattito contemporaneo, Mimesis, Milano 2015. [5] Ad esempio J. Tooby, L- Cosmides, Does Beauty Build Adapted Minds? Toward an Evolutionary Theory of Aesthetics, Fiction and Arts, “Substance”, 30, 94/95, 2001, pp. 6-27. [6] S.J. Gould, E. Vrba, Exaptation. A Missing term in the Science of Form, “Paleobiology”, 8, 1982, pp. 4-15. [7] Si veda M. Nadal, G. Puerto, Evolutionary Approaches to Art and Aesthetics, in The Cambridge Handbook of the Psychology of Aesthetics and the Arts, 2014, pp. 167-194. [8] S. Mithen, The Prehistory of Mind. A Search for the Origins of Art, Religion and Science, Thames and Hudson, London 1996. [9] F. d’Errico, I. Colagé, Cultural Exaptation and Cultural Neural Reuse: A Mechanism for the Emergence of Modern Culture and Behavior, “Biological Theory”, 2018, 13, pp. 213-227. [10] E. Dissanayake, What Is Art For?, University of Washington Press, Seattle 1988; Ead., Homo aestheticus. Where Art Comes From and Why, New York, Free Press 1992; Ead., Aesthetic Primitives: Fundamental biological elements of a naturalistic aesthetics, “Aisthesis. Pratiche, linguaggi e saperi dell’estetico”, 8, 1, 2015, pp. 6-24. [11] T. Pievani, E. Serrelli, Exaptation in Human Evolution: How to Test Adaptive Vs Exaptive Evolutionary Hypotheses, «Journal of Anthropological Sciences», vol. 89, 2011, pp. 1-15, p. 12 [12] S. Davies, The Artful Species. Aesthetics, Art and Evolution, Oxford University Press, Oxford 2012.
È ricercatrice in Estetica presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Si occupa di approcci interdisciplinari all’estetica, in particolare di estetica evoluzionistica, estetica ambientale, Environmental humanities, e di temi di storia dell’estetica moderna e contemporanea in area inglese e tedesca.