La “legge zero” dell’evoluzione
Nella meccanica newtoniana, che si applica al mondo inanimato, l’assenza di forze risulta nella quiete. Non così – argomentano Dan McShea e Robert Brandon nel loro recente libro Biology’s First Law (2010) – se ci occupiamo di esseri viventi: qui non dobbiamo assumere che da un’assenza di forze derivi la stabilità. Individui, popolazioni, specie e taxa superiori hanno infatti una […]
Nella meccanica newtoniana, che si applica al mondo inanimato, l’assenza di forze risulta nella quiete. Non così – argomentano Dan McShea e Robert Brandon nel loro recente libro Biology’s First Law (2010) – se ci occupiamo di esseri viventi: qui non dobbiamo assumere che da un’assenza di forze derivi la stabilità. Individui, popolazioni, specie e taxa superiori hanno infatti una tendenza spontanea alla differenziazione.
Per complessità – concetto assai dibattuto in filosofia della biologia (es. Dawkins 1983, Ruse 1999, Gould 1993, 1994) – va detto che McShea e Brandon intendono una misura ben precisa, ovvero il “numero di tipi di parti o grado di differenziazione tra le parti”. Chiaramente, quindi, non si sta parlando di una spiegazione di “organi complessi” come l’occhio fotografico dei vertebrati (Dawkins 1996), né della “complessità adattativa” (Dawkins 1983) che è sempre relativa a particolari funzioni: un gran numero di parti, infatti, non è certo sufficiente per descrivere la complessità intesa in questi due sensi. Gli organi complessi e la complessità adattativa necessitano della selezione naturale – una forza, appunto – non emergono for free nemmeno nella cornice della legge proposta da McShea e Brandon. Piuttosto, la complessità considerata dai due autori è un’altra faccia della diversità: è la diversità tra le parti di un’entità – dipende, quindi, dall’entità che consideriamo.
Adottiamo ora un altro punto di vista: quello del cambiamento. Spesso ci si aspetta – biologi inclusi – che ove vi è cambiamento ci debba essere una forza che lo causa. Cercando di dimostrare la presenza della “zero-force law”, i due autori cercano di modificare quello che in filosofia della scienza viene chiamato l’explanans dei biologi, cioè ciò che richiede spiegazione. Se gli esseri viventi tendono alla differenziazione e alla variazione, sarà la stabilità – non il cambiamento – a invocare una spiegazione. Una forza come la selezione naturale, oltre a incanalare il cambiamento escludendo alcune possibilità, potrà essere propro quella forza che spiega stabilizzazione e mantenimento nell’evoluzione.
Le specie, le popolazioni, gli organismi si differenzierebbero, per McShea e Brandon, come i paletti che compongono una staccionata nuova, appena verniciata: col passare del tempo, macchie, logoramenti, graffi, muffe ecc. si accumulano su ogni paletto in modo unico e differente dagli altri. In assenza di forze – come il pittore che periodicamente ridipinge la staccionata – ci è una tendenza alla moltiplicazione e all’unicità. Ma ciò che per la staccionata è dettaglio e imperfezione, per gli esseri viventi è pluralità di forme di vita nonché materiale grezzo per l’innovazione evolutiva.
Biology’s First Law: The Tendency for Diversity and Complexity to Increase in Evolutionary Systems è un libro notevole per chi è interessato alla teoria dell’evoluzione: formula una proposta teorica precisa, un «principio unificatore», e cerca di svilupparne le implicazioni anche operative tanto per la teoria quanto per la ricerca – sebbene, come lamenta Samir Okasha (2010), la ZFEL non venga per ora formulata in termini matematici.
Di certo sarà un libro di cui si parlerà, non solo a causa del prestigio dei due autori (*), ma per i delicati problemi concettuali che solleva.
Mohan Matthen ad esempio, nella sua recensione su Notre Dame Philosophical Reviews (2011), solleva alcune questioni importanti: la complessità – nell’accezione usata da Brandon e McShea – è dipendente dalla prospettiva che si adotta? Ad esempio, come possiamo misurare la complessità in casi dove essa ha tendenze opposte a diversi livelli di osservazione (es. grande diversità molecolare, lieve diversità fenotipica; oppure grande diversità individuale e poca differenza tra popolazioni; ecc.)? E che cosa significa «in assenza di vincoli»? Brandon e McShea distinguono tra vincoli “costitutivi” (interni al processo di riproduzione ed ereditarierà) e vincoli “imposti” (come ad esempio i vincoli ambientali che si esprimono nella selezione naturale). Ma come mai vincoli costitutivi risultano a volte nella perdita di diversità, come nel caso della omogeneizzazione genetica della popolazione per deriva genetica? Vi è poi tutto un dibattito sulla deriva genetica: essa va intesa come forza o come fenomeno che si verifica in assenza di forze (es. Millstein et al. 2009, Matthen 2010)?
Citerei inoltre la recente trattazione di Peter Godfrey-Smith (2009) che ha analizzato e quasi “smembrato” i termini “ereditarierà” e “variazione” mostrando come essi nascondano in realtà una miriade di situazioni diverse nel mondo vivente. Dopo l’analisi di Godfrey-Smith è, a mio parere, più complicato e controverso porre ereditariertà e variazione in toto come presupposti di un ragionamento, o addirittura di una legge (“ovunque vi siano variazione ed ereditarietà vi è…”).
Emanuele Serrelli
(*) Daniel W. McShea e Robert N. Brandon lavorano entrambi alla Duke University come professori e ricercatori di Filosofia (la specializzazione primaria di Brandon) e Biologia (quella di McShea). Sono membri del Center for the Philosophy of Biology. Robert Brandon ha contribuito molto al campo della filosofia della biologia, anche attraverso libri come Genes, Organisms, Populations: Controversies over the Units of Selection (Bradford Books, MIT Press, 1984), e Adaptation and Environment (Princeton University Press, 1990), Concepts and Methods in Evolutionary Biology (Cambridge University Press, 1996).
Libro recensito:
Daniel W. McShea and Robert N. Brandon, Biology’s First Law: The Tendency for Diversity and Complexity to Increase in Evolutionary Systems, University of Chicago Press, 2010, 170pp., $20.00 (pbk), ISBN 9780226562261. Link
Altri riferimenti:
Godfrey-Smith P (2009). Darwinian Populations and Natural Selection. New York: Oxford University Press. Pikaia ne ha parlato qui.
Gould SJ (1993). Eight Little Piggies: Reflections in Natural History. New York: W. W. Norton, 1993; trad. it. Otto piccoli porcellini. Milano: Il Saggiatore.
Matthen M (2010), What is Drift? A Response to Millstein, Skipper, and Dietrich. Philosophy and Theory in Biology 2:e102.
Matthen M (2011), Review on Notre Dame Philosophical Reviews 2011.01.23. Link
Michael Ruse (1999), Darwin’s New Critics on Trial. In Taking Darwin Seriously: A Naturalistic Approach to Philosophy, New York: Prometheus Books, pp. 286-289.
Millstein RL, Skipper RA, Dietrich MR (2009), (Mis)interpreting Mathematical Models: Drift As A Physical Process. Philosophy and Theory in Biology 2:e002.
La “zero-force evolutionary law” – abbreviato ZFEL – stabilisce che «in qualsiasi sistema evolutivo caratterizzato da variazione ed ereditarierà vi è, in assenza di vincoli, una tendenza all’aumento di diversità e complessità».
Per complessità – concetto assai dibattuto in filosofia della biologia (es. Dawkins 1983, Ruse 1999, Gould 1993, 1994) – va detto che McShea e Brandon intendono una misura ben precisa, ovvero il “numero di tipi di parti o grado di differenziazione tra le parti”. Chiaramente, quindi, non si sta parlando di una spiegazione di “organi complessi” come l’occhio fotografico dei vertebrati (Dawkins 1996), né della “complessità adattativa” (Dawkins 1983) che è sempre relativa a particolari funzioni: un gran numero di parti, infatti, non è certo sufficiente per descrivere la complessità intesa in questi due sensi. Gli organi complessi e la complessità adattativa necessitano della selezione naturale – una forza, appunto – non emergono for free nemmeno nella cornice della legge proposta da McShea e Brandon. Piuttosto, la complessità considerata dai due autori è un’altra faccia della diversità: è la diversità tra le parti di un’entità – dipende, quindi, dall’entità che consideriamo.
Adottiamo ora un altro punto di vista: quello del cambiamento. Spesso ci si aspetta – biologi inclusi – che ove vi è cambiamento ci debba essere una forza che lo causa. Cercando di dimostrare la presenza della “zero-force law”, i due autori cercano di modificare quello che in filosofia della scienza viene chiamato l’explanans dei biologi, cioè ciò che richiede spiegazione. Se gli esseri viventi tendono alla differenziazione e alla variazione, sarà la stabilità – non il cambiamento – a invocare una spiegazione. Una forza come la selezione naturale, oltre a incanalare il cambiamento escludendo alcune possibilità, potrà essere propro quella forza che spiega stabilizzazione e mantenimento nell’evoluzione.
Le specie, le popolazioni, gli organismi si differenzierebbero, per McShea e Brandon, come i paletti che compongono una staccionata nuova, appena verniciata: col passare del tempo, macchie, logoramenti, graffi, muffe ecc. si accumulano su ogni paletto in modo unico e differente dagli altri. In assenza di forze – come il pittore che periodicamente ridipinge la staccionata – ci è una tendenza alla moltiplicazione e all’unicità. Ma ciò che per la staccionata è dettaglio e imperfezione, per gli esseri viventi è pluralità di forme di vita nonché materiale grezzo per l’innovazione evolutiva.
Biology’s First Law: The Tendency for Diversity and Complexity to Increase in Evolutionary Systems è un libro notevole per chi è interessato alla teoria dell’evoluzione: formula una proposta teorica precisa, un «principio unificatore», e cerca di svilupparne le implicazioni anche operative tanto per la teoria quanto per la ricerca – sebbene, come lamenta Samir Okasha (2010), la ZFEL non venga per ora formulata in termini matematici.
Di certo sarà un libro di cui si parlerà, non solo a causa del prestigio dei due autori (*), ma per i delicati problemi concettuali che solleva.
Mohan Matthen ad esempio, nella sua recensione su Notre Dame Philosophical Reviews (2011), solleva alcune questioni importanti: la complessità – nell’accezione usata da Brandon e McShea – è dipendente dalla prospettiva che si adotta? Ad esempio, come possiamo misurare la complessità in casi dove essa ha tendenze opposte a diversi livelli di osservazione (es. grande diversità molecolare, lieve diversità fenotipica; oppure grande diversità individuale e poca differenza tra popolazioni; ecc.)? E che cosa significa «in assenza di vincoli»? Brandon e McShea distinguono tra vincoli “costitutivi” (interni al processo di riproduzione ed ereditarierà) e vincoli “imposti” (come ad esempio i vincoli ambientali che si esprimono nella selezione naturale). Ma come mai vincoli costitutivi risultano a volte nella perdita di diversità, come nel caso della omogeneizzazione genetica della popolazione per deriva genetica? Vi è poi tutto un dibattito sulla deriva genetica: essa va intesa come forza o come fenomeno che si verifica in assenza di forze (es. Millstein et al. 2009, Matthen 2010)?
Citerei inoltre la recente trattazione di Peter Godfrey-Smith (2009) che ha analizzato e quasi “smembrato” i termini “ereditarierà” e “variazione” mostrando come essi nascondano in realtà una miriade di situazioni diverse nel mondo vivente. Dopo l’analisi di Godfrey-Smith è, a mio parere, più complicato e controverso porre ereditariertà e variazione in toto come presupposti di un ragionamento, o addirittura di una legge (“ovunque vi siano variazione ed ereditarietà vi è…”).
Emanuele Serrelli
(*) Daniel W. McShea e Robert N. Brandon lavorano entrambi alla Duke University come professori e ricercatori di Filosofia (la specializzazione primaria di Brandon) e Biologia (quella di McShea). Sono membri del Center for the Philosophy of Biology. Robert Brandon ha contribuito molto al campo della filosofia della biologia, anche attraverso libri come Genes, Organisms, Populations: Controversies over the Units of Selection (Bradford Books, MIT Press, 1984), e Adaptation and Environment (Princeton University Press, 1990), Concepts and Methods in Evolutionary Biology (Cambridge University Press, 1996).
Libro recensito:
Daniel W. McShea and Robert N. Brandon, Biology’s First Law: The Tendency for Diversity and Complexity to Increase in Evolutionary Systems, University of Chicago Press, 2010, 170pp., $20.00 (pbk), ISBN 9780226562261. Link
Altri riferimenti:
Godfrey-Smith P (2009). Darwinian Populations and Natural Selection. New York: Oxford University Press. Pikaia ne ha parlato qui.
Gould SJ (1993). Eight Little Piggies: Reflections in Natural History. New York: W. W. Norton, 1993; trad. it. Otto piccoli porcellini. Milano: Il Saggiatore.
«We talk about the ‘march from monad to man’ (old-style language again) as though evolution followed continuous pathways to progress along unbroken lineages. Nothing could be further from reality. I do not deny that, through time, the most ‘advanced’ organism has tended to increase in complexity. But the sequence [allocated in most texts] from jellyfish to trilobite to nautiloid to armored fish to dinosaur to monkey to human is no lineage at all, but a chronological set of termini on unrelated evolutionary trunks. Moreover life shows no trend to complexity in the usual sense — only an asymmetrical expansion of diversity around a starting point constrained to be simple» (p. 322, da www.stephenjaygould.org).
Gould SJ (1994), The Evolution of Life On Earth. Scientific American 271 (4): 85-86. Link «History includes too much chaos, or extremely sensitive dependence on minute and unmeasurable differences in initial conditions, leading to massively divergent outcomes based on tiny and unknowable disparities in starting points. And history includes too much contingency, or shaping of present results by long chains of unpredictable antecedent states, rather than immediate determination by timeless laws of nature. Homo sapiens did not appear on the earth, just a geologic second ago, because evolutionary theory predicts such an outcome based on themes of progress and increasing neural complexity. Humans arose, rather, as a fortuitous and contingent outcome of thousands of linked events, any one of which could have occurred differently and sent history on an alternative pathway that would not have led to consciousness» (da www.stephenjaygould.org).
Okasha S (2010), Does diversity always grow? Nature, 466(7304), p.318. LinkMatthen M (2010), What is Drift? A Response to Millstein, Skipper, and Dietrich. Philosophy and Theory in Biology 2:e102.
Matthen M (2011), Review on Notre Dame Philosophical Reviews 2011.01.23. Link
Michael Ruse (1999), Darwin’s New Critics on Trial. In Taking Darwin Seriously: A Naturalistic Approach to Philosophy, New York: Prometheus Books, pp. 286-289.
Millstein RL, Skipper RA, Dietrich MR (2009), (Mis)interpreting Mathematical Models: Drift As A Physical Process. Philosophy and Theory in Biology 2:e002.