La prima conquista dell’America
Due studi, in parte contrastanti, svelano nuovi particolari sull’arrivo dell’uomo nel continente americano
L’idea delle Americhe come terre di frontiera rievoca immagini di cowboy e cercatori d’oro, e prima ancora di conquistatori europei, che giunsero nel nuovo continente cercando nuove ricchezze e sterminando le popolazioni locali con nuove armi e malattie. Ma la colonizzazione del continente americano ebbe inizio molto tempo prima, sebbene le sue dinamiche fossero ancora poco chiare.
Per tentare di fare chiarezza su questa fase della storia umana, due diversi gruppi di ricercatori hanno lavorato a lungo, analizzando e comparando genomi antichi e moderni. I risultati dei loro lavori sono stati pubblicati in contemporanea a fine luglio e hanno subito acceso il dibattito all’interno della comunità scientifica. Entrambi gli studi hanno infatti individuato, nel DNA dei moderni Nativi Americani, un legame con le popolazioni native dell’Australia e della Melanesia, ma hanno tratto conclusioni diverse sia sull’origine di questa traccia australasiatica, sia sulla datazione e le dinamiche di colonizzazione del continente americano.
Pubblicato il 21 luglio su Nature, il primo studio – guidato da Pontus Skoglund e David Reich, dell’Harvard Medical School di Boston, in collaborazione con alcune università brasiliane – ha suggerito l’esistenza di almeno due ondate migratorie, giunte nelle Americhe attraverso lo stretto di Bering circa 15.000 anni fa. Il secondo articolo, pubblicato su Science il 23 luglio da un consorzio di più di settanta gruppi di ricerca fra Stati Uniti, Sud America, Europa e Russia, è invece giunto alla conclusione che l’ondata migratoria è stata una sola e ha avuto luogo non prima di 23.000 anni fa, per poi dividersi – diecimila anni dopo – in due rami, uno dei quali si è disperso sia nel nord sia nel sud del continente, mentre l’altro è rimasto principalmente confinato nella parte settentrionale.
Un possibile legame fra i gli antichi Nativi Americani e le popolazioni australo-melanesiane era già stato suggerito in passato da alcuni antropologi nel cosiddetto Modello Paleo-americano, sulla base delle caratteristiche morfologiche dei teschi di alcune popolazioni estinte di Nativi Americani, che sembravano somigliare più a quelli di popolazioni australasiatiche che a quelli di altre popolazioni del continente americano.
Lo studio di Science, però, confuta questa ipotesi: l’analisi di individui appartenenti a queste popolazioni americane estinte non ha rilevato alcuna traccia genetica di origine australo-melanesiana. Ma com’è possibile che alcuni sudamericani contemporanei abbiano, nel loro DNA, tracce di una discendenza che risale all’Australasia? Secondo gli autori dello studio, gli antenati di questi sudamericani potrebbero essersi mescolati con popolazioni asiatiche imparentate con gli attuali australo-melanesiani, che avrebbero quindi portato alcuni dei loro geni con sé nelle Americhe durante un’ondata migratoria successiva a quella fondatrice.
Anche l’articolo di Nature è in contrasto con il Modello Paleo-americano, ma dà un’interpretazione diversa del mistero del DNA australo-melanesiano. I suoi autori hanno scoperto che alcune popolazioni dell’Amazonia condividono circa l’1-2% della loro ascendenza con i nativi di Australia, Nuova Guinea e isole Andamane. Questa parentela, però, non deriverebbe in maniera diretta da queste popolazioni ma sarebbe dovuta a un’altra popolazione ora estinta, che i ricercatori hanno battezzato Popolazione Y, dalla parola Ypykuéra, che nella lingua Tupi significa “antenato”. Gli autori dello studio hanno quindi concluso che le tracce genetiche di origine australo-melanesiana non sono dovute a una migrazione verso le Americhe successiva a quella originaria; al contrario, la Popolazione Y potrebbe essere stata una delle due popolazioni fondatrici della prima colonizzazione americana insieme a quella già nota agli studiosi, da cui discendono i Nativi Americani.
L’arrivo dell’uomo nelle Americhe rimane quindi un evento sul quale permangono molti misteri, alla cui indagine i risultati di questi due articoli, sebbene contrastanti su alcuni punti, hanno portato nuova linfa.
Riferimenti:
Skoglund et al. Genetic evidence for two founding populations of the Americas. Nature (2015) doi:10.1038/nature14895
Raghavan et al. Genomic evidence for the Pleistocene and recent population history of Native Americans. Science (2015) DOI: 10.1126/science.aab3884
Immagine da Wikimedia Commons