L’accuratezza dell’altruismo

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Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, alcuni dei presupposti di fondo della teoria evoluzionistica classica (neodarwiniana) sono stati messi in discussione dalla formulazione di due teorie in particolare: la teoria della fitness complessiva di W. D. Hamilton, e la teoria del gene egoista di R. Dawkins. Semplificando al massimo, la prima afferma che gli individui tendono alla massimizzazione, […]


Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, alcuni dei presupposti di fondo della teoria evoluzionistica classica (neodarwiniana) sono stati messi in discussione dalla formulazione di due teorie in particolare: la teoria della fitness complessiva di W. D. Hamilton, e la teoria del gene egoista di R. Dawkins. Semplificando al massimo, la prima afferma che gli individui tendono alla massimizzazione, non tanto della propria fitness classicamente intesa (numero di figli adulti), quanto piuttosto della propria fitness complessiva (numero di copie geniche immesse nella generazione successiva attraverso figli e parenti di altra natura); la seconda, invece, afferma che la cosiddetta unità di selezione e d’interesse (l’entità che viene selezionata e nel cui interesse evolvono gli adattamenti individuali) non è l’individuo, ma il gene. Queste due teorie sono tra loro strettamente legate, con la conseguenza che un eventuale fraintendimento di una delle due rischia di compromettere la giusta comprensione dell’altra. La teoria di Dawkins, ad esempio, viene talvolta intesa in una forma incompleta che autorizza la deduzione, dalla teoria di Hamilton, di previsioni che non hanno, però, alcuna ragione di essere.

Emblematico di quest’ultimo errore, è un articolo pubblicato sui Proceedings of the Royal Society B, gli autori del quale si sono ripromessi di verificare quella che essi ritengono una previsione legittima della teoria di Hamilton: «La teoria della fitness complessiva prevede che la selezione naturale favorisca i geni altruistici che siano più accurati nell’offrire altruismo soltanto a copie di sé stessi.». La previsione, formulata com’è da una prospettiva genetica, testimonia una tacita adesione alla teoria di Dawkins. Di questa, però, circolano versioni diverse, più o meno fedeli all’originale, e quella adottata dagli autori è una versione decisamente incompleta. Vediamo in che senso.

La teoria di Dawkins, abbiamo detto, sostiene che la selezione naturale agisca sui, e nell’interesse dei, singoli geni. Che cosa ne consegue? Forse che la selezione debba premiare indefinitamente i caratteri che garantiscano una più alta diffusione dei geni sottostanti? Che, ad imporsi stabilmente, siano i geni capaci di massimizzare il proprio esclusivo interesse? Una risposta affermativa ad entrambe tradirebbe una comprensione soltanto parziale del messaggio dawkinsiano. Nella sua completezza, infatti, la teoria di Dawkins tiene conto del fatto che i geni sono coloniali: ogni individuo possiede una moltitudine di geni, ognuno dei quali ha un interesse peculiare che vorrebbe sì coltivare al massimo grado, ma che deve però saper conciliare con gli interessi, altrettanto peculiari, degli altri geni; ad avere successo sul lungo periodo, sono soltanto quei geni capaci di scendere a compromessi con gli altri. Cosa implica ciò nella competizione tra geni altruistici? Supponiamo che esista un gene altruistico estremamente accurato, un gene che induca il suo portatore ad essere altruista esclusivamente nei confronti di coloro che possiedano a loro volta una copia del gene. Nei confronti di un gene siffatto, è probabile che la selezione agisca negativamente: la sua specializzazione nel soccorso delle proprie copie, infatti, difficilmente rappresenterebbe un vantaggio per gli altri geni, i quali verrebbero pertanto selezionati per sopprimere il suo effetto. Anche un gene altruistico, per avere successo, dev’essere disposto al compromesso. In questo caso, il compromesso può consistere nell’indurre il suo portatore ad essere altruista in modo pressoché esclusivo nei confronti d’individui a lui più o meno strettamente imparentati: quando beneficia un parente, infatti, un altruista beneficia un individuo avente una probabilità più o meno alta di recare a sua volta una copia, non soltanto del gene altruistico, ma anche di numerosi altri geni dell’altruista.

La teoria originale di Dawkins pone dunque dei limiti al livello di accuratezza raggiungibile dalle forme di altruismo, limiti più o meno equivalenti al livello di accuratezza previsto dall’altruismo circoscritto ai parenti. Gli autori dell’articolo, invece, ritengono che la selezione favorisca indefinitamente geni altruistici sempre più accurati nell’allocare altruismo ad individui che risultino effettivamente portatori di loro copie. Trattandosi di una previsione difficile da testare nel mondo reale, essi l’hanno sottoposta a verifica nel mondo digitale; più precisamente, in quello di Avida, un software appositamente concepito per lo studio simulato dei sistemi in evoluzione. Nell’ambiente virtuale di Avida, essi hanno fatto competere tra loro, in tempi diversi ed in diverse combinazioni, varie forme di altruismo, forme che differivano tra loro anche e soprattutto nel grado di accuratezza. Il risultato è stato che, in ogni simulazione, la selezione ha premiato effettivamente la forma più accurata tra quelle in competizione. La forma più accurata in assoluto è risultata quella tale per cui gli altruisti sono tali esclusivamente nei confronti di altri altruisti, indipendentemente dal loro grado di parentela. L’altruismo circoscritto ai parenti si è posizionato invece nella parte inferiore della classifica, appena al di sopra dell’altruismo indiscriminato.

Lo scenario delineato dalla simulazione è molto diverso da quello che si può riscontrare in natura, in cui l’altruismo circoscritto ai parenti è la regola, mentre l’altruismo incoronato dalla simulazione non ha mai ottenuto, ad oggi, alcun riscontro. Agli autori non è ovviamente sfuggita questa clamorosa discrepanza, ma essi l’hanno così commentata: la ragione per cui nel mondo reale domina una forma di altruismo che nella simulazione si è comportata peggio rispetto ad altre forme, più accurate in varia misura, è che molte di queste forme non hanno mai fatto la loro comparsa in natura per via di una loro intrinseca improbabilità; qualora la facessero, però, l’esito sarebbe quello della simulazione; simulazione che verifica pertanto la previsione ispiratrice dello studio. La teoria del gene egoista suggerisce però un’interpretazione alternativa: può anche darsi che le forme più accurate di altruismo ideate dagli autori non abbiano mai avuto occasione di competere con l’altruismo circoscritto ai parenti nel mondo reale, ma il punto è che, qualora ciò accadesse, è improbabile che esse riuscirebbero ad affermarsi su di una forma avente il pregio di conciliare l’interesse del singolo gene altruistico con quello di numerosi altri geni; quanto alla ragione per cui la simulazione ha dato l’esito previsto dagli autori, essa consiste nel fatto che questi hanno considerato soltanto le pressioni selettive agenti su di un unico locus, quello del gene altruistico, senza tener conto anche di quelle operanti sugli altri loci; se lo avessero fatto, l’esito sarebbe stato probabilmente più vicino alla situazione che si riscontra effettivamente in natura.

Alessandro Rocca


Riferimenti

Clune, J. & Goldsby, H. J. & Ofria, C. & Pennock, R. T. Selective pressures for accurate altruism targeting: evidence from digital evolution for difficult-to-test aspects of inclusive fitness theory (2011); Proc. R. Soc. B 278, 666-74 (doi:10.1098/rspb.2010.1557)

Dawkins, R. The Selfish Gene (2ª ed., 1989); Oxford University Press, Oxford [Trad. ital.: Il gene egoista – La parte immortale di ogni essere vivente (1992); Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano]

Hamilton, W. D. The Evolution of Altruistic Behavior (1963); The American Naturalist 97, 354-6

Hamilton, W. D. The Genetical Evolution of Social Behaviour. I (1964); Journal of Theoretical Biology 7, 1-16

Hamilton, W. D. The Genetical Evolution of Social Behaviour. II (1964); Journal of Theoretical Biology 7, 17-52