Le aree protette non sono isole
Un recente studio pubblicato sul Nature mostra che le aree protette hanno un “impatto misto” sulla conservazione degli uccelli acquatici e dei loro ecosistemi.
Nei prossimi mesi i leader del mondo hanno in programma di incontrarsi in Cina per sottoscrivere un accordo che impegna le nazioni a proteggere formalmente il 30% della superficie terrestre entro il 2030. Proseguono quindi gli impegni presi con il Piano strategico per la biodiversità (2011-2020), sorto nel quadro della Convezione sulla Diversità Biologica, la cui missione è quella di “intraprendere azioni efficaci ed immediate per ridurre il degrado degli ambienti naturali”. Si punta ad arrestare i processi di desertificazione, deforestazione e distruzione della biodiversità e degli habitat nonché al ripristino delle terre degradate, e ad assestare una sostanziale spallata alle principali cause del cambiamento climatico. Proteggere, però, non è solo questione di superficie secondo un nuovo studio.
Quantità e qualità delle aree protette
Attualmente esistono 269.667 aree protette nel mondo, divise tra 245 paesi e territori. Sono molte, ma non sempre funzionano. Considerando l’andamento in crescita e il rinnovato impegno delle nazioni coinvolte è probabile che gli obiettivi vengano raggiunti nei prossimi anni, ma restano forti le preoccupazioni dei ricercatori, consapevoli del fatto che l’efficacia delle aree protette non può ridursi a una questione di superficie. Non serve una grossa quantità di aree naturali protette se queste non occupano zone significative per la biodiversità e non vengono correttamente gestite. Molte aree protette sorgono infatti in zone nelle quali il contrasto alle attività produttive che minacciano la biodiversità è limitato o nullo e, inoltre, non sempre si concentrano sulla tutela e la protezione di specie target o fortemente minacciate. Quanto sono efficaci le aree protette per gli uccelli acquatici
Queste preoccupazioni sembrano confermate dal gruppo di ricerca guidato da Hannah Wauchope, del centro di Ecologia e Conservazione dell’Università di Exeter, che ha studiato l’impatto delle aree protette sugli uccelli acquatici. La scelta di queste specie non è casuale. Sono presenti in molte parti del mondo e sono molto studiate e ben conosciute. Un altro vantaggio, affermano i ricercatori, è che la mobilità di questi uccelli permette loro di colonizzare o abbandonare un luogo velocemente se le condizioni mutano diventando favorevoli o sfavorevoli. Sono dunque un ottimo soggetto di studio poiché permettono di testare l’efficacia delle aree protette in luoghi molto distanti tra loro, oltre ad essere uno specchio abbastanza attendibile delle loro qualità (ampiezza, connettività, gestione equa). La ricerca, pubblicata su Nature, è il frutto di uno sforzo congiunto tra la Wetlands International e le università di Bangor, Queensland, Copenaghen e Cornell. È stata condotta in 68 paesi per un totale di 1500 aree protette e 27000 popolazioni di uccelli acquatici. L’analisi ha rivelato che la creazione di aree protette ha un impatto rilevante nella conservazione degli habitat, ma in alcuni casi non ottiene il suo obiettivo principale, quello di conservare la biodiversità. Lo studio è stato condotto adottando il metodo BACI (Before/After-Control/Impact), utilizzato per valutare l’impatto umano sulle popolazioni e le zone marine costiere e la relativa risposta degli organismi marini al cambiamento del loro ambiente. Tenendo conto delle differenze naturali e preesistenti tra diversi siti e di quelle che si verificano dopo l’introduzione di una variabile (come la creazione di un’area protetta), questo metodo offre il vantaggio di confrontare il sito impattato e il sito di controllo riducendo al minimo le incertezze. Proteggere vuol dire anche gestire
Le analisi suggeriscono che le aree protette più grandi ottengono effetti migliori sulla conservazione della biodiversità e che in generale le aree protette hanno un impatto misto, che varia a seconda che siano pensate tenendo conto degli interessi delle specie o meno. L’Unione mondiale per conservazione della natura, infatti, classifica la gestione delle aree protette in 6 categorie, in base all’obiettivo primario. Si va dalla riserva naturale, che limita severamente le attività umane consentite (solo studio e conservazione), all’area nata per tutelare un paesaggio caratteristico. Le aree protette gestite attivamente dando la priorità alla conservazione di specie o habitat sono la quarta categoria.
La dottoressa Julia Jones (Bangor University), coautrice dello studio, ha infatti affermato che “invece di concentrarci esclusivamente sull’area globale protetta totale, abbiamo bisogno di maggiore attenzione per garantire che le aree siano ben gestite a beneficio della biodiversità”. Le aree protette, infatti, ottengono risultati decisamente migliori quando vengono create tenendo conto dell’interesse delle specie o dell’habitat, ha affermato la dottoressa Wauchope, che ha aggiunto “non possiamo semplicemente aspettarci che le aree protette funzionino senza una gestione adeguata”. In particolare, si legge nello studio, vi è una associazione debole tra la grandezza dell’area e lo stato di conservazione, mentre segnali forti che la gestione corretta dell’area abbia un impatto positivo sulle popolazioni osservate. In generale le aree protette hanno un impatto misto sulla conservazione delle specie, nel quale il peso maggiore ricade sulla gestione, benché in generale aree più grandi abbiano un effetto positivo sulle popolazioni di uccelli acquatici. Come detto in precedenza, dobbiamo invertire la tendenza a ridurre la conservazione della biodiversità a una questione di superficie (30% del pianeta). Se il nostro interesse è anche quello di conservare le biodiversità, i parchi nazionali, le riserve e le zone che godono di una speciale protezione devono raggiungere gli standard qualitativi che sono stabiliti da milioni di anni di co-evoluzione tra le specie e il loro ambiente. Le aree protette non possono essere isole. La loro creazione deve tener conto dell’esistenza delle ecoregioni, di zone naturali sufficientemente grandi e connesse tra loro (ben collegate), aree tra loro molto simili per tipo, qualità e quantità delle risorse ambientali. Sono queste caratteristiche a garantire la dispersione e lo scambio genetico delle specie che le abitano. La connettività ecologica e gli interessi specie-specifici delle popolazioni di animali selvatici devono diventare gli obiettivi strategici per una corretta gestione delle aree protette.
Immagine: un fratino fotografato a Roseto degli Abruzzi. Foto per gentile concessione di Angela Fraja Bianchi
Attualmente esistono 269.667 aree protette nel mondo, divise tra 245 paesi e territori. Sono molte, ma non sempre funzionano. Considerando l’andamento in crescita e il rinnovato impegno delle nazioni coinvolte è probabile che gli obiettivi vengano raggiunti nei prossimi anni, ma restano forti le preoccupazioni dei ricercatori, consapevoli del fatto che l’efficacia delle aree protette non può ridursi a una questione di superficie. Non serve una grossa quantità di aree naturali protette se queste non occupano zone significative per la biodiversità e non vengono correttamente gestite. Molte aree protette sorgono infatti in zone nelle quali il contrasto alle attività produttive che minacciano la biodiversità è limitato o nullo e, inoltre, non sempre si concentrano sulla tutela e la protezione di specie target o fortemente minacciate. Quanto sono efficaci le aree protette per gli uccelli acquatici
Queste preoccupazioni sembrano confermate dal gruppo di ricerca guidato da Hannah Wauchope, del centro di Ecologia e Conservazione dell’Università di Exeter, che ha studiato l’impatto delle aree protette sugli uccelli acquatici. La scelta di queste specie non è casuale. Sono presenti in molte parti del mondo e sono molto studiate e ben conosciute. Un altro vantaggio, affermano i ricercatori, è che la mobilità di questi uccelli permette loro di colonizzare o abbandonare un luogo velocemente se le condizioni mutano diventando favorevoli o sfavorevoli. Sono dunque un ottimo soggetto di studio poiché permettono di testare l’efficacia delle aree protette in luoghi molto distanti tra loro, oltre ad essere uno specchio abbastanza attendibile delle loro qualità (ampiezza, connettività, gestione equa). La ricerca, pubblicata su Nature, è il frutto di uno sforzo congiunto tra la Wetlands International e le università di Bangor, Queensland, Copenaghen e Cornell. È stata condotta in 68 paesi per un totale di 1500 aree protette e 27000 popolazioni di uccelli acquatici. L’analisi ha rivelato che la creazione di aree protette ha un impatto rilevante nella conservazione degli habitat, ma in alcuni casi non ottiene il suo obiettivo principale, quello di conservare la biodiversità. Lo studio è stato condotto adottando il metodo BACI (Before/After-Control/Impact), utilizzato per valutare l’impatto umano sulle popolazioni e le zone marine costiere e la relativa risposta degli organismi marini al cambiamento del loro ambiente. Tenendo conto delle differenze naturali e preesistenti tra diversi siti e di quelle che si verificano dopo l’introduzione di una variabile (come la creazione di un’area protetta), questo metodo offre il vantaggio di confrontare il sito impattato e il sito di controllo riducendo al minimo le incertezze. Proteggere vuol dire anche gestire
Le analisi suggeriscono che le aree protette più grandi ottengono effetti migliori sulla conservazione della biodiversità e che in generale le aree protette hanno un impatto misto, che varia a seconda che siano pensate tenendo conto degli interessi delle specie o meno. L’Unione mondiale per conservazione della natura, infatti, classifica la gestione delle aree protette in 6 categorie, in base all’obiettivo primario. Si va dalla riserva naturale, che limita severamente le attività umane consentite (solo studio e conservazione), all’area nata per tutelare un paesaggio caratteristico. Le aree protette gestite attivamente dando la priorità alla conservazione di specie o habitat sono la quarta categoria.
La dottoressa Julia Jones (Bangor University), coautrice dello studio, ha infatti affermato che “invece di concentrarci esclusivamente sull’area globale protetta totale, abbiamo bisogno di maggiore attenzione per garantire che le aree siano ben gestite a beneficio della biodiversità”. Le aree protette, infatti, ottengono risultati decisamente migliori quando vengono create tenendo conto dell’interesse delle specie o dell’habitat, ha affermato la dottoressa Wauchope, che ha aggiunto “non possiamo semplicemente aspettarci che le aree protette funzionino senza una gestione adeguata”. In particolare, si legge nello studio, vi è una associazione debole tra la grandezza dell’area e lo stato di conservazione, mentre segnali forti che la gestione corretta dell’area abbia un impatto positivo sulle popolazioni osservate. In generale le aree protette hanno un impatto misto sulla conservazione delle specie, nel quale il peso maggiore ricade sulla gestione, benché in generale aree più grandi abbiano un effetto positivo sulle popolazioni di uccelli acquatici. Come detto in precedenza, dobbiamo invertire la tendenza a ridurre la conservazione della biodiversità a una questione di superficie (30% del pianeta). Se il nostro interesse è anche quello di conservare le biodiversità, i parchi nazionali, le riserve e le zone che godono di una speciale protezione devono raggiungere gli standard qualitativi che sono stabiliti da milioni di anni di co-evoluzione tra le specie e il loro ambiente. Le aree protette non possono essere isole. La loro creazione deve tener conto dell’esistenza delle ecoregioni, di zone naturali sufficientemente grandi e connesse tra loro (ben collegate), aree tra loro molto simili per tipo, qualità e quantità delle risorse ambientali. Sono queste caratteristiche a garantire la dispersione e lo scambio genetico delle specie che le abitano. La connettività ecologica e gli interessi specie-specifici delle popolazioni di animali selvatici devono diventare gli obiettivi strategici per una corretta gestione delle aree protette.
Immagine: un fratino fotografato a Roseto degli Abruzzi. Foto per gentile concessione di Angela Fraja Bianchi
Laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Milano, sto completando un Master in comunicazione ambientale presso l’Università degli Studi dell’Insubria. Il mio interesse è rivolto alla filosofia della biologia, all’ambiente e alla filosofia della mente in riferimento alle questioni neuroscientifiche.