L’enigma degli ungulati di Darwin

Uno studio fornisce una risposta al controverso problema della classificazione degli ungulati estinti del Sud America

«Infine il Toxodon, forse uno degli animali più strani che siano stati scoperti: per mole era uguale all’elefante o al Megatherium, ma la struttura dei suoi denti, a quanto asserisce il signor Owen, prova inequivocabilmente che era strettamente imparentato ai roditori […]. In molti particolari era affine ai pachidermi, ma a giudicare dalla disposizione degli occhi, delle orecchie e delle narici viveva probabilmente nell’acqua come il dugongo e il manato ai quali somigliava. È proprio sorprendente trovare mescolate nella struttura del Toxodon le caratteristiche di alcuni ordini che sono oggi nettamente separati!».

Così Charles Darwin, in
Viaggio di un naturalista intorno al mondo, descrive i resti fossili di un curioso mammifero, raccolti nel 1833 vicino alla città argentina di Punta Alta, durante una delle tappe del viaggio a bordo del Beagle, insieme a quelli di altri mammiferi che vennero poi studiati dal grande anatomista Richard Owen. Il Toxodon è l’esponente più celebre di un vasto gruppo di mammiferi ungulati, cioè provvisti di zoccoli, vissuti in Sud America e scomparsi alla fine del Pleistocene, circa 12 mila anni fa. Darwin non fu l’unico a rimanere perplesso e confuso dalla bizzarra anatomia del Toxodon. La classificazione di questo mammifero e quella degli altri ungulati estinti del Sud America ha rappresentato per molto tempo una sfida per i paleontologi, rimanendo fino a oggi elusiva e di difficile definizione.

La diffusa presenza di convergenze evolutive nella struttura di diverse specie di mammiferi ungulati, o simili a questi, anche non strettamente correlati dal punto di vista evolutivo, ha fatto sì che i tentativi di classificazione compiuti sulla base della sola morfologia non riuscissero a ottenere risultati convincenti. La loro posizione all’interno dei mammiferi è rimasta dibattuta, tra chi ritiene che debbano essere classificati tra gli Afroteri, il gruppo di mammiferi di origine africana (tra gli altri, elefanti, dugonghi, oritteropi) e chi li colloca tra i Laurasiateri (il vasto gruppo di mammiferi che va dai cetacei ai pipistrelli), vicino a ungulati come i cavalli e i bovini.

Se la morfologia dei fossili non riesce a risolvere l’enigma, forse una risposta può venire da ciò che questi resti potrebbero aver conservato al loro interno, ovvero dalle molecole biologiche sopravvissute al tempo e ai processi di degradazione, come dimostra una ricerca, pubblicata su Nature, in cui si descrive uno studio condotto sul Toxodon e su Macrauchenia, un altro tra gli ungulati sudamericani i cui fossili furono raccolti da Darwin. Da questi fossili è stato estratto il collagene presente all’interno di quello che un tempo era il tessuto connettivo osseo. Il collagene delle ossa, quello di tipo I, costituisce circa il 90% del collagene totale, la proteina più abbondante nei mammiferi e che è presente come componente strutturale in diversi tessuti connettivi.

Le molecole di collagene, che gli autori sono riusciti a recuperare, si sono rivelate integre per circa il 90% della loro sequenza amminoacidica originaria e adatte, perciò, a essere utilizzate per un confronto con specie viventi. Dall’allineamento delle sequenze delle due specie fossili con quello delle sequenze di collagene di tipo I di altri mammiferi è stato derivato un albero filogenetico, che ha evidenziato come Toxodon e Macrauchenia siano più vicini agli attuali Perissodattili, come cavalli, tapiri e rinoceronti, che agli Afroteri.

Oltre a svelare l’enigma degli ungulati di Darwin, questa ricerca mostra anche come la paleontologia molecolare possa venire in aiuto della paleontologia classica, quando la sola anatomia dei fossili non è sufficiente a chiarire la posizione filogenetica di una o più specie. Questo approccio, tuttavia, si scontra con il limite costituito dalla capacità di conservazione delle molecole biologiche all’interno dei fossili, soprattutto del DNA, il cui tasso di degradazione, come ricordano gli autori, è piuttosto elevato nei depositi situati in aree geografiche caratterizzate da climi subtropicali o temperati, come quelle che ospitano i fossili degli ungulati sudamericani.

Ma grazie anche al progresso nello sviluppo degli strumenti e delle tecniche analitiche, le proteine come il collagene, particolarmente robusta, potrebbero consentire un giorno di “viaggiare” molto più indietro nel tempo di quanto sia possibile finora.


Riferimento:
Frido Welker
et al. Ancient proteins resolve the evolutionary history of Darwin’s South American ungulates. Nature, 2015 DOI: 10.1038/nature14249