L’evoluzione dei vampiri
Molti di noi sanno che esistono mammiferi, i pipistrelli vampiro, che si nutrono di sangue di uccelli. Pochi però sanno che esistono uccelli che si nutrono di sangue di mammifero, stabilendo con le loro “vittime” una relazione dai bordi ambigui e sfumati tra la simbiosi e il parassitismo. E l’aspetto ironico è che quello che per alcuni è un problema, […]
Molti di noi sanno che esistono mammiferi, i pipistrelli vampiro, che si nutrono di sangue di uccelli. Pochi però sanno che esistono uccelli che si nutrono di sangue di mammifero, stabilendo con le loro “vittime” una relazione dai bordi ambigui e sfumati tra la simbiosi e il parassitismo. E l’aspetto ironico è che quello che per alcuni è un problema, per altri, i biologi evoluzionisti, è la più eccitante delle ricerche.
Questa è la storia delle due specie di uccelli bufagidi, quegli uccellini dall’aria innocua che vivono sul dorso dei grandi ungulati in tutta l’Africa subsahariana e che sicuramente tutti avremo visto, anche se non notato, guardando i documentari sui grandi animali della savana africana come le zebre, le giraffe, gli gnu, gli ippopotami etc. Cosa ci fanno lì, appollaiati sul dorso dei bufali? Se guardassimo una ipotetica carta d’identità delle due specie in questione, Bufagus erythrorhynchus (dal becco rosso) e Bufagus africanus (dal becco giallo), alla voce “professione” ci sarebbe scritto “mangiatori di parassiti degli ungulati”, e sarebbe quasi la pura verità. Questi uccellini si nutrono infatti di zecche, pidocchi, larve di botflies, tafani, mosche tsetse, sanguisughe, moscerini e zanzaroni assortiti, svolgendo un effetto benefico per l’animale che viene liberato da insetti nocivi e che portano malattie. Il bufago dal becco rosso, più piccolo, preferisce gli stadi giovanili delle zecche, mentre quello dal becco giallo, un po’ più grande, riesce a mangiare anche le grosse femmine di zecca gonfie di sangue, ma per il resto tra i due non ci sono sostanziali differenze. Ma una zecca piena di sangue ha il sapore del sangue, e perchè non andare direttamente alla fonte?
Oltre che dei vari artropodi che infestano i mammiferi i bufagidi si nutrono anche di “prodotti derivati” dei mammiferi stessi, tipo il cerume delle orecchie, il muco che prendono dagli occhi e dalle narici, residui di pelle morta, lacrime, sudore e sangue (non è una citazione). Qui un video spettacolare su quest’operazione di toelettatura facciale su un bufalo, che sembra un po’ invasiva per la verità. Si nutrono anche del sangue e della carne stessi dell’animale: se ci sono ferite aperte si fanno strada col becco per bere il sangue e staccare pezzettini di carne viva, impedendo la rimarginazione delle ferite. Già che ci sono si mangiano anche le mosche carnarie, ma è solo un beneficio collaterale. Spesso gli animali muoiono non a causa delle ferite che avevano, ma dei danni da bufagidi che non permettono alle ferite rimarginarsi e quindi si infettano. Se avete lo stomaco molto forte, guardate questo video, ma se siete sensibili non ve ne raccomando la visione. In questo caso, accontentatevi di questo video, che mostra i bufagidi che si nutrono da una ferita di ippopotamo e una di giraffa. In tutti i video si tratta di ferite preesistenti, ma non è finita lì. I bufagidi spesso, col loro becco appuntito, si aprono da se buchi nell’epidermide per nutrirsi del sangue e della carne del loro ospite, come dei veri e propri parassiti, ferite che non si chiuderanno più sino alla morte dell’animale. Mi è capitato di vedere ad una conferenza, la settimana scorsa, una foto scattata in Sudafrica di una bufaga dal becco rosso che infila interamente il grazioso capino nell’ano di una giraffa, e non certo per beneficio della giraffa. L’uccello (honi soit qui mal y pense) è probabilmente solo alla ricerca di un posto dove la pelle è più sottile e più perforabile, e per la giraffa dev’essere terribile. Occasionalmente si nutrono anche di animali morti.
Uccelli predatori ce ne sono molti, ma mi risulta che questo sia l’unico caso di uccello parassita a tempo pieno. Come ha evoluto queste abitudini così lontane da quelle dei suoi simili piumati? La classificazione tassonomica delle due specie di bufaga è stata a lungo incerta. Per via di somiglianze anatomiche, sono stati a lungo considerati parenti stretti degli storni (erano nella famiglia Sturnidae sino ad una ventina di anni fa), gli stessi uccelletti che volteggiano in gruppi di milioni sui nostri cieli e becchettano frutta (per nostra fortuna!). Analisi molecolari tuttavia suggeriscono che da un antenato comune i bufagidi si sono separati 22 milioni di anni fa, e dal rimanente ramo sono poi discesi sia gli storni che i mimidi, gli uccelli del gruppo dei fringuelli di Darwin (che fringuelli non sono mai stati). Oggi quindi le due specie sono in una famiglia tutta loro, Buphagidae.
Le somiglianze con gli storni tuttavia sono piuttosto limitate, essendo costituite essenzialmente dalla forma e dalle dimensioni generali, dai richiami sgraziati e dall’abitudine di nidificare nelle cavità degli alberi. Nonostante somiglianze strutturali nella disposizione della melanina, mentre il piumaggio dei nostri storni è brillante e iridescente, quello delle bufaghe è opaco e monocolore. Se si guarda però la struttura anatomica più da vicino, si notano nelle bufaghe degli adattamenti estremamente interessanti: nella bufaga a becco rosso, ad esempio, W. J. Beecher ha notato che, sebbene complessivamente il becco sia conformato tipo quello degli sotrni, i muscoli della mandibola sono allargati nella maniera tipica dei picchi, in modo da fare da cuscinetto per il cervello quando l’animale colpisce col becco il legno. Gli artigli dei bufagidi esibiscono, inoltre, la stessa struttura e curvatura degli uccelli arrampicatori come i veri picchi, i picchi muraioli etc., mentre gli storni hanno zampine da uccelli abituati ad appollaiarsi sui rami, e la punta degli artigli dei bufagidi è più sottile in modo da penetrare il substrato meglio e mantenere una presa salda con la zampa su tutte le superfici, inclusa la scivolosa pelle di un ippopotamo. I bufagidi in nidificazione, infine, si spostano su e giù per gli alberi muovendosi come picchi, e come i picchi mantengono la particolare postura bilanciandosi con la coda. Portano la testa sempre in alto e spesso assumono una postura quasi verticale, da pinguino.
Se uno volesse sbilanciarsi, potrebbe azzardare che tutti questi adattamenti fanno pensare ad un antenato dei bufagidi con uno stile di vita arboricolo, da picchio che si nutre di larve di insetti sotto la corteccia degli alberi. Spostarsi da un albero ad un rinoceronte non deve poi essere stato così arduo, e sicuramente il premio nella facilità di trovare artropodi sui grossi mammiferi ha pesato in questo spostamento. Del resto, si direbbe che i bufagidi siano ancora benissimo in grado di scavare buchi, solo che invece della corteccia bucano pelle. Quello che sta gradualmente cambiando mi sembra sia invece il gusto, laddove agli artropodi viene preferito il sangue di mammifero. Ovviamente, l’adattamento potrebbe essere recente (non si conoscono bufagidi fossili). Il progenitore poteva essere un animale che viveva a terra in spazi aperti vicino ai grossi greggi, come oggi l’airone guardabuoi, che poi ha pensato di saltare in groppa all’evoluzione (e ai bufali) e adattarsi a passare il giorno appollaiato su schiene larghe. Mi sento più incline verso la prima ipotesi tuttavia. Se così fosse avremmo un animale che passa da una vita da generalista (l’antenato comune a bufagidi, storni e mimidi) ad uno specializzato alla vita arboricola da picchio, per poi riadattarsi a simbionte dei mammiferi ed infine adattarsi ancora ad una vita parassitaria: se la tendenza procederà nella direzione avviata, tra qualche centinaio di migliaia di anni il sangue potrebbe costituire l’unica dieta dei discendenti dei bufagidi, e questi uccelli potrebbero non scendere più di dosso agli artiodattili, affiancando magnificamente le zecche di cui ora si nutrono. La tendenza sembrerebbe avviata in questo senso, dato che ora già alcune popolazioni di bufaga dal becco giallo in Zambia e Zimbabwe scelgono di dormire in groppa ai loro ospiti anzichè ritirarsi al posatoio su un albero la notte. In alcuni casi non scendono neanche per bere e lavarsi, aspettano che l’ospite vada a bere entrando in acqua e si calano lungo una gamba sino alle caviglie immerse nella pozza. Piccolo gesto di gentilezza nei confronti dell’ospite, per defecare si sporgono col sederino e proiettano le feci a distanza della loro cavalcatura. Niente a che fare con la gentilezza, in realtà, è una norma igienica per proteggere dai parassiti i loro stessi piedi.
A proposito di evoluzione, mi preme sottolineare che le due specie di bufagidi sono in simpatria, cioè coesistono esattamente negli stessi luoghi e in Tanzania si è notato che possono ancora ibridarsi tra loro. Il meccanismo classico di speciazione, quello da manuale, di solito prevede che due popolazioni restino separate ed evolvano indipendentemente. In questo caso, come negli apparentati fringuelli di Darwin alle Galapagos, il meccanismo di speciazione è stato invece diverso: data una distribuzione uniforme nelle dimensioni degli uccelletti, in circostanze particolari gli estremi possono essere avvantaggiati, in questo caso le bufaghe più grandi che mangiano zecche adulte e le bufaghe più piccole che invece prendono meglio gli stadi giovanili. Le dimensioni intermedie sarebbero svantaggiate dalla mancanza di becco specializzato e soccomberebbero sotto la pressione selettiva, portando alla separazione di due popolazioni in base alle dimensioni. Alla faccia dei creazionisti.
E ora affrontiamo un argomento spinoso e cerchiamo di capire dove finisce la simbiosi tra mammiferi e bufaghe e dove incomincia il parassitismo. La definizione da manuale di simbiosi mutualistica dice che la simbiosi è quello stato in cui due forme di vita traggono uguale e reciproco vantaggio dalla esistenza in associazione, mentre quella di parassitismo prevede che il parassita tragga vantaggio danneggiando l’ospite, anche se di solito la relazione non porta alla morte immediata dell’ospite, come nel caso della predazione. Queste due categorie ovviamente non sono nette, ma ci sono, come nell’esempio dei bufagidi, tutte le sfumature intermedie che vanno dal mutualismo al commensalismo all’opportunismo al parassitismo per gradi dai confini non ben definiti.
Nel nostro caso abbiamo che i bufagidi, indubbiamente, mangiano i parassiti dei loro ospiti, e questo sarebbe un innegabile vantaggio per l’ospite. Si pensava ad esempio che gli impala che usufruivano dell’opera delle bufaghe si grattassero di meno di impala senza bufaghe (ma ora questa idea è in discussione, dal momento che si domostra che gli impala sanno liberarsi da soli delle zecche grazie a un grooming reciproco e denti specializzati), e in genere finchè non ci sono lesioni della pelle il tutto rientrerebbe in un perfatto esempio di mutualismo in cui l’uccello ottiene cibo e il mammifero pulizia dai parassiti e da involuti eccessi di secrezioni corporee. Oltre a questo, c’è un altro grande servigio reso dalle bufaghe ai loro ospiti: ci sono molti casi riportati in cui le bufaghe hanno dato l’allarme di un cacciatore in avvicinamento, consentendo una fuga rapida agli ospiti. E’ in discussione se la rimozione del cerume sia un vantaggio o un danno, dato che il cerume protegge il canale auricolare. Il rovescio della medaglia è che i cacciatori a volte individuano la preda notando le bufaghe volteggiare in determinati punti. L’equilibrio vero e proprio si rompe tuttavia quando le bufaghe passano ad allargare ferite preesistenti o ad aprirne di nuove. Ventidue milioni di anni di coevoluzione hanno comunque fatto si che gli ungulati originari della savana africana abbiano evoluto un minimo di contromosse contro il vampirismo sfrenato. Di solito solo gli animali defedati subiscono l’attacco aperto delle bufaghe vampire, che il più delle volte si limitano opportunisticamente ad aprire ferite preesistenti, o ad infierire su bestie comunque morenti. Animali selvatici in buona salute riescono spesso a coesistere con questi wannabe vampiri.
I problemi sono arrivati qualche migliaio di anni fa, quando i buoi addomesticati sono stati introdotti in Africa dall’Asia e con questi anche i cavalli e gli asini asiatici. Tutti questi animali si son trovati non solo in presenza dello sfruttamento umano, che ad esempio impone agli asini e ai muli di portare selle da soma che aprono piaghe, ma anche in presenza di piccoli uccelletti malefici assetati di sangue. Le bufaghe sono una vera e propria calamità per il bestiame e in presenza di buoi di solito non si fanno scrupoli ad ignorare le zecche e ad aprire ferite: la loro presenza non sembra essere di beneficio in alcun modo per rimuovere le zecche e le malattie correlate. Il rapporto tra vantaggio da pulizie dei parassiti e svantaggio del parassitismo diretto subito è tutto a favore del secondo. Si direbbe quindi che, dato un ospite privo di difese, la tendenza delle bugaghe sia verso il più produttivo parassitismo che verso il mutualismo. Nutrirsi di zecche ha i suoi effetti collaterali: le due più comuni specie di zecche, Amblyomma hebraeum e Boophilus decoloratus, sono state trovate nei nidi delle bufaghe mentre infestavano i pulcini: da prede, se ne hanno la possibilità, le zecche ricambiano il favore e si trasformano in parassiti delle bufaghe. Non è chiaro però se gli uccelli alternano visite alla ricerca di zecche sugli animali selvatici e sangue dai buoi domestici, o se le popolazioni si specializzino su una delle due categorie. Il nome inglese di questi uccelletti è molto ben descrittivo della situazione: oxpeckers, picchi dei buoi. Anche il nome latino del resto non è male: Buphagus vuol dire “mangiatore di buoi”, segno che anche i primi naturalisti ottocenteschi che li hanno classificati, nel 1828, sapevano delle cattive abitudini di queste adorabili bestioline: l’85% del loro tempo viene speso nutrendosi di sangue, cerume e pelle, e solo il 5% è dedicato alla ricerca delle zecche. La contromisura presa dai coloni europei di solito era ricoprire la pelle del bestiame con delle tinture a base di arsenico, che avevano la duplice funzione di uccidere sia i parassiti che le bufaghe. Oggi pare che la pratica sia in disuso (e meno male!), e le popolazioni di bufaghe si stanno riprendendo rapidamente. Rimane in ogni caso aperto un altro quesito: se gli uccelli si spostano da un ospite all’altro, che implicazioni hanno nel trasportare le malattie tradizionalmente imputate ai ditteri e alle zecche? Sono vettori diretti di altre malattie? Tutto ciò si scoprirà solo con ricerche più mirate.
Per concludere, due postille interessanti: la prima è che non tutti gli animali della savana sono disposti a farsi parassitare impunemente dalle bufaghe: gli elefanti ad esempio, a riprova della loro intelligenza, li cacciano via attivamente, probabilmente anche a causa della loro pelle delicata che patisce le unghie acuminate di questi uccelli. La seconda è che questi uccelli, da bravi vampirotti, hanno l’iride di colore variabile dal giallo al bruno passando per il rosso in base all’età e allo stato emotivo, ma il meccanismo fisiologico di questo fenomeno, così come le sue cause, sono tutt’ora sconosciuti.
Tratto da L’Orologiaio miope, il blog di Lisa Signorile
Referenze:
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Irby J. Lovette, Dustin R. Rubenstein (2007) A comprehensive molecular phylogeny of the starlings (Aves: Sturnidae) and mockingbirds (Aves: Mimidae): Congruent mtDNA and nuclear trees for a cosmopolitan avian radiation. Molecular Phylogenetics and Evolution 44: 1031–1056
Hart, B.L., Hart, L.A., Mooring, M.S., (1990). Differential foraging of oxpeckers on impala in comparison with sympatric antelope species. Afr. J. Ecol. 28, 240–249
McElligott AG, Maggini I, Hunziker L, Konig B (2004) Interactions between red-billed oxpeckers and black rhinos in captivity. Zoo Biology 23 (4) :347 -354
Handbook of Birds World 14 – Family text: Buphagidae (Oxpeclers)
Fonte dell’immagine: Wikimedia Commons