L’evoluzione per fotogrammi
Finché la cultura viene replicata, essa sarà sottoposta a selezione e per questo l’evoluzione culturale diviene inevitabile. La memetica, per quanto possa essere materia controversa (“Cosa” sono i memi? Qualunque “cosa” siano, esistono.), fornisce una delle cornici più affascinanti per analizzare le dinamiche dell’evoluzione della cultura. Il sito Scuole Civiche Milano L!ve pubblica un contributo di Diego Cassani, docente di […]
Finché la cultura viene replicata, essa sarà sottoposta a selezione e per questo l’evoluzione culturale diviene inevitabile. La memetica, per quanto possa essere materia controversa (“Cosa” sono i memi? Qualunque “cosa” siano, esistono.), fornisce una delle cornici più affascinanti per analizzare le dinamiche dell’evoluzione della cultura. Il sito Scuole Civiche Milano L!ve pubblica un contributo di Diego Cassani, docente di editing non-lineare, sull’evoluzione memetica in campo cinematografico, in particolare nell’ambito dell’editing: “Due guardoni all’inizio del XX secolo”.
Nel 1900 George Albert Smith, realizza il filmato, Grandma’s Reading Glass, in cui un bambino prende alla nonna la sua lente di ingrandimento e la usa per guardare diversi oggetti, mostrati in soggettiva. Ad una persona a digiuno di storia del cinema potrebbe sembrare un ingenuo filmato senza alcuna particolarità ma è proprio qui che compare per la prima volta la tecnica del montaggio di scena. Fino ad allora, infatti, ci si limitava a riprendere più o meno pedantemente un’azione continua ed ininterrotta da un punto di vista esterno, oggettivo. Come fa notare Cassini, è qui che avviene uno slittamento del significato dell’invenzione dei Lumière, da una clinica “rappresentazione dell’azione” alla narrazione di un “racconto”. Smith replica poi il suo espediente in un film successivo, As Seen Through a Telescope che, come il film precedente, rientra nel genere delle magnificent views (immagini ingrandite e quindi rese interessanti). Il pubblico dell’epoca, senza alcun sforzo, comprende questa “mutazione” della sintassi filmica e anzi, la accetta entusiasticamente.
Quello che è successo è in realtà l’adeguamento di un media (il film) ad un processo mentale: così come nella realtà l’attenzione dedicata all’ambiente circostante, passa da un punto all’altro secondo un’ “immagine di ricerca” (che poi è il catalizzatore dell’attenzione), così nella scena vengono visualizzati solo gli oggetti che attirano la curiosità del bambino protagonista (e forse si potrebbe anche aggiungere che la lente d’ingrandimento è essa stessa un simbolo pleonastico di questo processo). Da quel momento storico, il meme del montaggio, da mutazione sporadica, si diffonde e diviene norma in tutte le produzioni filmiche successive.
E qui si può andare oltre la mera analisi dell’evoluzione culturale, per sfiorarne l’origine: Daniel Dennett, infatti, nel suo Consciousness Explained indica questo processo di slittamento dell’attenzione come il responsabile della grande illusione della coscienza, ovvero quello che essa sia “centralizzata” in un “teatro cartesiano”, in cui avviene la proiezione di un “film della mente”. La coscienza sperimenta la realtà come se fosse un film, i cui collegamenti nella sequenza di fotogrammi conservati nella memoria, vengono forniti da una narrazione più o meno coerente (ma non per questo veritiera) dell’Io o “omuncolo cartesiano” (esempio: “Stamattina mi sono svegliato, poi ho fatto colazione e ora scrivo per Pikaia”). Susan Blackmore nella sua La macchina dei memi, attribuisce questi collegamenti… indovinate a cosa? … ai memi che, nel corso della crescita di noi esseri umani, vanno a costituire l’Io (o selfplex, Pikaia ne ha parlato qui: l’Io è l’insieme delle storie che raccontiamo e ci raccontano…
… e lo spettacolo si chiude con un colpo di scena. Applausi.
Giorgio Tarditi Spagnoli
Fonte dell’immagine: Wikimedia Commons