Né inferiori, né eroine: una conversazione con la Prof.ssa Paola Govoni sulle donne nella scienza di ieri e di oggi
Mercoledì 23 marzo 2022, in collegamento zoom, Paola Govoni, docente presso l’Università di Bologna, ci ha regalato una lezione di storia e sociologia della scienza per comprendere il fenomeno della partecipazione femminile al mondo scientifico-tecnologico. Numerosi gli spunti di riflessione scaturiti dalla conversazione per cui non vi resta che leggere la prima intervista della rubrica “L’evoluzione non ha genere”
Nel corso della storia della scienza, la maggior parte degli scienziati non ha riconosciuto pubblicamente il merito di collaboratrici o colleghe. Alcuni però hanno ammesso che le donne sarebbero state in grado di eccellere in ambito scientifico o hanno riconosciuto pubblicamente i loro meriti. Nella sua premessa al libro di Marta Cavazza – Laura Bassi. Donne, genere e scienza nell’Italia del Settecento (2020) – cita il caso di Luigi Galvani e Lucia Galeazzi, sua moglie. Ci sono esempi simili anche nell’ambito della biologia evoluzionistica?
Certo, ce ne sono stati e numerosi. Scienziati evoluzionisti – sia atei sia credenti – che nella seconda metà dell’Ottocento perfino in Italia – paese ancora oggi caratterizzato da una diffusa cultura patriarcale – hanno sostenuto le donne, non ritenendole affatto ‘inferiori’. Nel caso di Galvani, oltre a riconoscere i meriti di Lucia Galeazzi, sua moglie, lodò il lavoro di Anna Morandi Manzolini, ceroplasta e docente di anatomia presso lo Studio di Bologna. Morandi fu la realizzatrice di modelli anatomici innovativi rispetto a quelli di colleghi come Ercole Lelli o Clemente Susini, legati a rappresentazioni religiose e/o estetiche tradizionali del corpo umano in generale, femminile in particolare. Su Morandi consiglio il libro La Signora Anatomista di Rebecca Messbarger, ora tradotto in italiano, che intreccia la storia della cultura, dell’arte e della medicina del tempo. Il caso settecentesco della presenza femminile nelle accademie e nello Studio bolognesi era noto a livello internazionale, ma fu temporaneo, come mostra anche il caso di Laura Bassi – sulla quale oltre a Cavazza, che hai citato, Paula Findlen ha scritto saggi che ci sono utili per comprendere il contesto istituzionale e sociale in cui agì la scienziata.
Bassi fu una donna al passo con i tempi e capace, al contrario di molti colleghi, di rimanere aggiornata sulle novità scientifiche europee: anche per questo ebbe successo tra i suoi allievi. Ma non ebbe mai allieve: il prezzo da pagare – cinicamente, potrebbe sembrarci oggi – per il suo successo professionale. Bassi dovette accettare di restare una “eccezione”, a conferma di quella ‘inferiorità’ delle donne che, ripetuta di generazione in generazione, senza dati né evidenze empiriche, ne giustificava l’esclusione dai luoghi dell’educazione e, conseguentemente, del potere economico e politico. Bassi fu un’abile diplomatica – come ci spiega Findlen –, capace di ritagliarsi un’autonomia nel rigido regime sociale del tempo. La sua carriera si svolse in un momento difficile per la città di Bologna. Prospero Lambertini, che sarebbe diventato Papa Benedetto XIV, la sostenne e usò il suo caso per promuovere una città che attraversava una grave crisi economica. Lambertini fu un illuminista e un politico intelligente che, quando diventò Papa nel 1740, sostenne anche altre donne oltre a Bassi e Morandi. Per esempio, cercò di attirare a Bologna Maria Gaetana Agnesi, una matematica sulla quale ora abbiamo in italiano anche il libro di Massimo Mazzotti.
Le vicende di queste donne ci aiutano ad andare oltre le loro biografie. Ci aiutano a capire come funzionano le istituzioni in relazione con la politica e l’economia; ci aiutano a comprendere che cosa contribuisce a orientare i rapporti tra donne e scienza; ci consentono di leggere la storia delle interazioni tra scienza e fede da nuovi punti di vista. E ovviamente ci aiutano a capire come mai le donne “normali” – non quelle scelte per recitare la parte di “eccezioni” – sono state tenute così a lungo fuori dall’educazione e dal mercato delle professioni e della ricerca. In altre parole, la storia di questi casi “straordinari” ci è utile – non certo per alimentare una già troppo ricca storiografia celebrativa –, ma per ridare voce a donne che, certamente speciali, ci aiutano a capire ciò che oggi chiamiamo interazione tra scienza e valori sociali.
Un altro elemento importante emerge di conseguenza dalla ricostruzione di quelle vite di donne nella scienza: si tratta di una storia non progressiva. Dopo le studiose che ho citato e con il caso di Maria Dalle Donne, che si laureò in medicina nel 1799, a Bologna per ritrovare una donna docente universitaria dobbiamo aspettare la fine dell’Ottocento. E oggi il Bilancio di genere dell’Università di Bologna non ci restituisce una realtà migliore di quella delle altre università a sud delle Alpi. Un fenomeno complesso da affrontare quanto clamoroso per disparità: d’altra parte, negarlo o sottostimarlo, significa alimentarlo. A mio parere.
Dalla seconda metà dell’Ottocento in Italia la presenza delle donne nelle scuole e nelle università è cresciuta in modo costante e importante. Per non dire di quanto accaduto dalla seconda metà del Novecento a oggi. Fino al famoso sorpasso delle laureate, avvenuto in Italia come in molti altri paesi nei primi anni Novanta. Un sorpasso delle laureate sui laureati che, di anno in anno, aumenta il divario a favore delle donne, ma al quale non corrisponde –è noto – un successo in ambito professionale. Il “caso Bologna”, come lo chiamo, è interessante per capire queste dinamiche non progressive: quando l’antico Studio in cui operarono Bassi e Morandi Manzolini, Clotilde Tambroni e Maria Dalle Donne si è evoluto – di guerra in guerra, dall’età napoleonica in poi – nella moderna università tecnocratica, una istituzione in dialogo con il potere statale, economico e militare, le donne sono state espulse. Un fenomeno che riscontriamo in altri paesi, dove le donne furono addirittura legalmente tenute fuori dalle università. Le donne otterranno il titolo legale a Oxford dopo il diritto al voto, ottenuto nel 1918, ma a Cambridge dovettero aspettare addirittura la fine della Seconda guerra mondiale. Naturalmente, come sappiamo, un femminismo importante e sostenuto anche da molti uomini – al contrario di quanto accaduto in Italia –, in quel paese portò alla fondazione di numerosi college femminili che poterono offrire alle donne una formazione di ottimo livello. Ma, certamente, senza il titolo legale era impossibile praticare in ambito professionale: e questo era ciò che si temeva. In Italia a tenere le donne fuori dalle università bastavano le rigide norme della cultura diffusa – cattolica, ma non solo – e una arretratezza economica tra le più gravi d’Europa che ha visto crescere i ceti medi, tra i quali ritroviamo le prime studentesse universitarie, solo negli ultimi decenni dell’Ottocento.
La storia delle donne nella scienza ci aiuta poi a capire anche un altro fenomeno interessante. La lentezza delle istituzioni ad ammettere le donne va di pari passo con la costruzione sociale dell’immagine pubblica dello scienziato: una nuova figura sociale che nella seconda metà dell’Ottocento si costruisce nella sfera pubblica anche su valori di ‘mascolinità’ che – inconsistenti da molti punti di vista – si rafforzano negando i diritti alle donne. Lo scienziato iniziò ad auto presentarsi come “eroe della scienza”, come “sacerdote del progresso”: immagini che furono sostenute anche attraverso una stereotipizzazione dai tratti grotteschi di ciò che si riteneva “femminile”. Anche in risposta alla cosiddetta prima onda del femminismo: un fenomeno che spaventava molti. E anche molte donne. Queste dinamiche sociali e culturali osservate nel lungo periodo attraverso le vite e le opere di scienziate dimenticate ci aiutano a capire qualche cosa di più delle nostre società, ma anche di come funziona la scienza. É interessante. E aiuta – come ci hanno insegnato alcune studiose, in primo luogo Eveleen Richards – anche a capire meglio Darwin.
Quando Darwin nel 1871 pubblicò The descent of man, nel capitolo dove argomenta l’inferiorità della donna sembra come perdere la sua capacità straordinaria di argomentare portando dati e esempi. Cade nell’ipse dixit e nei luoghi comuni più scontati. Evelleen Richards su questo aspetto ha scritto un libro molto importante.
In Italia, per esempio, i già convinti della cosiddetta ‘inferiorità della donna’ trovarono in quel capitolo del libro di Darwin la conferma dei loro pregiudizi: “se lo dice Darwin …”. Altri, altrettanto darwiniani e – mi pare – anche più interessanti dal punto di vista della produzione scientifica, non aderirono affatto all’immagine della donna offerta da Darwin. Mi riferisco a personaggi non conformisti come Michele Lessona (1823-1894), zoologo e divulgatore dichiaratamente non credente; Angelo Mosso (1846-1910), medico, fisiologo – ateo – ancora oggi noto a livello internazionale; Paolo Lioy (1834-1911), un naturalista cattolico non accademico e tra i primi – con Lessona – a far conoscere il darwinismo in Italia; Alessandro Roster (1865-1919), medico e ginecologo decisamente anomalo per il suo femminismo, e altri ancora sui quali sto lavorando. Costoro, credenti o meno che fossero, non pensavano affatto che le donne fossero inferiori: bastavano le loro esperienze di vita a smentire quei pregiudizi, a renderli consapevoli del fatto che – come aveva scritto Galvani e molti altri prima di lui, come notò Londa Schiebinger molti anni fa – si trattava, come per chiunque – classi svantaggiate e minoranze –, di un problema di educazione e mancate opportunità.
È interessante chiederci, allora, perché conosciamo soprattutto i darwiniani misogini? Perché tutte/i sanno chi era Lombroso – personaggio inconsistente da un punto di vista scientifico – mentre pochi sanno di Mosso o Roster? Forse, perché anche chi lavora in ambito storico e con approccio di genere – e parlo di me – ha pregiudizi che ne condizionano la ricerca: solo da qualche anno mi sono appassionata alla storia degli uomini che hanno sostenuto, nei loro scritti e con azioni concrete, le donne nella scienza. D’altra parte, anche Darwin sulla ‘questione della donna’, come si diceva allora, era pieno contraddizioni. Mentre è noto da sempre il suo rapporto importante e paritario con la moglie, le figlie e altre familiari e amiche, solo di recente il Darwin Correspondence Project ha messo in evidenza la corrispondenza con più di 100 donne, anche attive in ambito scientifico, che Darwin ha dimostrato di stimare e incoraggiare. Una interessante contraddizione con quanto aveva scritto in Descent of Man.
Negli ultimi anni ci sono stati numerosi tentativi di fare “un cenno” alle donne nella storia della scienza. “I cenni” alle donne nella storia della scienza sono polarizzati su ambiti specifici? Quanto spazio è dato alle scienziate che hanno contribuito alle scienze naturali? Possono essere utili le loro biografie per avvicinare le giovani alla scienza?
La storia delle donne nella scienza è importante e risale almeno all’800. Margaret W. Rossiter, una storica americana, già nel 1993 parlò – è noto – di un ‘effetto Matilda’ che, in ambito scientifico, tiene ai margini le donne analogamente a quell’ ‘effetto Matteo’ che tende invece a premiare gli uomini, che si citano tra loro, anche quando mediocri: chi più ha, più avrà. È quel fenomeno – frutto di pregiudizi, spesso inconsci – per il quale il risultato del lavoro di ricerca compiuto da una donna viene sminuito, in tutto o in parte attribuito ad un uomo, quando non dimenticato. Il “Matilda effect” era da parte di Rossiter – in quell’articolo in polemica con Robert K. Merton – un omaggio a Matilda Joslyn Gage, scrittrice, attivista e storica delle donne nella scienza. Ovviamente dimenticata. La storia delle donne nella scienza e lo studio delle interazioni tra scienza e culture di genere ha preso il via negli anni ’70-’80 negli Stati Uniti con studiose straordinarie – e femministe – come Rossiter e molte altre, e si è man mano imposto a livello sovranazionale. Non si tratta solo – si fa per dire – di una storia che ha ridato voce a centinaia o migliaia di donne interessanti e spesso importanti. Come ho già detto, si tratta di studi che ci hanno aiutato a capire come funzionano le istituzioni scientifiche, inclusi i processi di peer review. In altre parole, come capì molto bene già degli anni Ottanta Evelyn Fox Keller, utilizzare il concetto sociologico di genere – così come quelli di classe, religione, etnia – ci aiuta a capire come funziona la scienza.
Si tratta di una storia della scienza in dialogo con i science studies, come già nell’approccio di David F. Noble, autore di un libro importante che ci ha consentito di comprendere come la storia delle donne nella cultura – religiosa e scientifica – non segua affatto linee progressive. È accaduto nell’antichità, così come in età moderna – come mostra il cosiddetto ‘caso Bologna’ –, nel Novecento e continua ad accadere oggi. Le donne riescono spesso a imporsi in settori nascenti e poco praticati che, quando rivelano la loro importanza, vengono colonizzati dagli uomini che, più numerosi e meglio organizzati in ogni settore professionale, escludono le donne. Più o meno inconsciamente, così come tendono a escludere altri competitors: giovani autonomi, stranieri e così via. Il caso più noto e recente è quello della computer science, dove le donne sono state pioniere tra gli anni 1950 e 1960. Chi afferma che si tratta di una questione di tempo, che cioè basterà aspettare e alle donne sarà riconosciuto il loro lavoro, sa benissimo di ricorrere a una strategia retorica priva di evidenze. La storia e i dati del presente dimostrano senza dubbio che ‘aspettare’ non basta. D’altra parte, a fronte di quel sorpasso delle laureate, di cui prima dicevo e ben noto, che le donne siano meno rappresentate in ambito scientifico non è un problema solo delle donne, ma un problema della scienza.
Per questo – a mio modo di vedere – è un problema quella storia delle donne ritratte come eroine o martiri della scienza, una storia che ci restituisce ancora oggi l’immagine della “prima donna che…”. È il limite di tanta storiografia dilettantesca che dilaga in internet in tutte le lingue. I miti e la retorica allontanano i e le giovani dalla scienza, per non dire dalla storia. Si rischia tra l’altro di alimentare il cosiddetto “complesso Marie Curie”: cioè la convinzione – più o meno conscia – che, se sei donna, per occuparti di scienza devi essere eccezionalmente dotata e pronta all’eroismo. In rete il fenomeno è molto evidente. Si tratta di storie utilizzate per “celebrare”. E la celebrazione è – sempre a mio parere – la fine di ogni processo innovativo, scientifico quanto storiografico e sociale. Diverso, ovviamente, il rendere merito: quello ritengo sia doveroso.
Le biografie, quindi, sono uno strumento importante per avvicinare le studentesse e gli studenti alla scienza, ma il loro uso deve essere accurato e critico, contestualizzato e vi dev’essere un grande impegno comunicativo. Si dovrebbero mostrare, in maniera critica, i contributi alla scienza, i risultati e, soprattutto, gli errori o “fallimenti” che hanno riscontrato nel lavoro quotidiano di scienziate. Bisognerebbe spiegare che “il fallimento” è pur sempre un risultato.
Assolutamente, la storia della scienza è sia storia di fallimenti sia di grandi innovazioni e scoperte. Com’è ovvio, sono straordinariamente più numerosi gli errori e i fallimenti dei grandi risultati: questo aiuta i/le giovani ad avvicinarsi alla scienza. Tanti scienziati hanno raccontato in modo efficace dei loro errori. Circa le biografie, ritengo che collane per ragazzi e ragazze fatte bene ci siano e svolgano un ruolo utilissimo. Tuttavia, parlando di comunicazione, credo non sia importante solo la biografia della scienziata del passato, ma anche della scienziata di oggi, vivente. Forse, con le immagini di donne eccezionali del passato, può essere interessante favorire confronti ravvicinati con donne che gestiscono oggi, nelle università e nelle industrie, carriere di ricerca in ambito scientifico e tecnologico soddisfacenti mentre conducono vite normali. Donne che, come molti uomini, possono essere modelli positivi anche per i ragazzi, non solo per le ragazze.
Parliamo adesso della partecipazione femminile ai congressi, alle conferenze, ai festival scientifici inerenti all’evoluzione e la scienza. Inviti veri o, utilizzando un linguaggio giuridico-politico, dettati dalla par condicio?
Le donne nella scienza del Novecento e in particolare negli ultimi decenni hanno dato un contributo di altissimo livello e in ogni ambito. E oggi sono talmente tante le donne competenti in tutti settori, compresa la computer science, che non mi sembra difficile trovarne: certo, basta volerle vedere. Quindi, quando si dice che è difficile trovare donne in un determinato campo, semplicemente non si ha la pazienza di andare oltre la sfera pubblica dove le donne sono ancora meno presenti – perché meno invitate – degli uomini: un processo che si autoalimenta. Anche in questo caso, finché non si ammetterà il problema – come sta avvenendo da molti anni in altri paesi – non lo si affronterà.
Convegni, commissioni, comitati, dibattiti, trasmissioni radio-televisive dove solo uomini sono invitati a parlare, dove solo un genere è rappresentato: sono i cosiddetti “manel”, strumento per una fuorviante rappresentazione del reale…
“No Women No Panel – Senza Donne Non Se Ne Parla” è la campagna europea per una rappresentazione paritaria e più equilibrata nel dibattito pubblico. Il mondo è pieno di scienziate in gamba e ovunque. Il punto, come ho detto, è la loro visibilità. La ricerca delle scienziate, dicono i dati, è tendenzialmente meno citata di quella degli scienziati, per non dire del loro coinvolgimento in board e commissioni. È importante dare loro voce in articoli, libri e anche sui media: quelli digitali, ovviamente, perché è da lì che scienziate e tecnologhe possono raggiungere i e le giovani. Le politiche di pari opportunità sono strumenti che ci aiutano a ‘vedere’ le donne. Le stesse donne, però, devono essere più pronte a presentarsi, a sostenersi a vicenda perché la dimensione pubblica ha una grande importanza. Questo è faticoso perché il mondo della scienza è competitivo al punto da essere violento – come raccontano bene le scienziate del MIT, e in primo luogo Nancy Hopkins, in ‘Picture a scientist’ –; per questo le attività di mentoring, presenti in alcune università, possono essere molto utili per aiutare le giovani ricercatrici.
L’educazione tecnico-scientifica (le discipline STEM), che non si può “scoprire” alle scuole superiori o, addirittura all’Università, dovrebbe essere un patrimonio condiviso. Utilizzare metodi didattici innovativi fin dall’infanzia rende le scienze e la tecnologia più attraenti. Tutti e tutte sono stimolati perché scoprono errori, fallimenti, creatività, pazienza ecc. Ma come il pensiero, le conoscenze e competenze femminili possono influenzare la scienza se stereotipi e pregiudizi non rendono possibile l’inclusione e la successiva parità di genere?
Certo, la scienza è la cultura dell’incertezza, del dubbio, della domanda, del problema e dell’errore ammesso. Le azioni positive, eventualmente ‘a tempo’, sono – a mio parere – importanti e necessarie: le campagne politiche non dovrebbero rimanere retorica. Come spesso accade. Fino a poco prima della pandemia si era raggiunto un equilibrio nella presentazione di paper di donne e di uomini alle principali testate scientifiche. A pochi mesi dall’inizio della pandemia si è registrato un crollo di pubblicazioni con donne PI (principal investigator). La spiegazione è nella cultura diffusa: le donne molto più degli uomini – statisticamente – rinunciano di propria iniziativa a impegni di lavoro in favore di figli o altri membri della famiglia. In tale contesto, la comunicazione e l’educazione alla parità, fin dall’infanzia, hanno un ruolo fondamentale. Direi infatti che soprattutto bambini e ragazzi devono essere raggiunti da una educazione alle pari opportunità.
E su questo punto ritengo che l’esercizio a orientarsi autonomamente tra le fonti sia determinante. Bisogna offrire fin dalla giovinezza strumenti che aiutino chiunque a prendere dimestichezza con quei dati, anche statistici, che ci raccontano i fenomeni sociali e culturali: e su questo, cosa meglio della scienza può aiutarci? Ritengo che la quantificazione dei fenomeni sociali e culturali – come sessismo e razzismo – sia una palestra per i giovani e le giovani, oltre che per noi adulti. Sta anche ai comunicatori e alle comunicatrici fare attenzione ai pregiudizi. A partire da una maggiore attenzione al linguaggio, evitando il maschile sovra esteso, per esempio. Una convenzione controversa che può essere superata e che aiuta ad essere consapevoli del problema.
Immagine: grafica di Carmen Troiano
Dopo la laurea magistrale in Neurobiologia presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2015, ho conseguito il Dottorato di ricerca in scienze biomediche sperimentali all’Università di Padova nel 2020. Da ottobre 2019 sono un’insegnante di scuola secondaria di primo e secondo grado. Ad ottobre 2022 ho concluso il Master in Comunicazione della Scienza dell’Università di Parma, grazie al quale ho iniziato a collaborare con Pikaia.