Nel DNA la storia evolutiva dell’uro: da dominatore dell’Eurasia, alla domesticazione e all’estinzione
Dalle immense steppe dell’Eurasia all’allevamento moderno, l’uro (Bos primigenius) racconta una storia affascinante di migrazioni, adattamenti climatici e intervento umano
I bovini hanno indubbiamente avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’uomo. Diffusi in tutto il mondo oggi sono allevati per la loro carne, il latte e la lavorazione del cuoio. E in passato hanno svolto anche un grande ruolo come moneta di scambio e forza meccanica.
Secondo alcune stime, rappresentano la più grande biomassa tra le specie animali; circa quattrocento milioni di tonnellate. Tutto questo è possibile grazie all’incontro tra la specie umana e il progenitore di tori e mucche: l’uro, o Bos primigenius, un grosso mammifero oggi estinto.
Recentemente, alcuni ricercatori guidati dal Trinity College di Dublino, hanno studiato il DNA di questo antico mammifero per ricostruirne la storia evolutiva.
Gli esperti hanno scoperto che all’interno del genoma di questi animali è possibile distinguere quattro popolazioni di uri antichi. Ognuna di queste popolazioni ha seguito una storia differente, influenzata dai cambiamenti climatici e dalla presenza dell’uomo.
Lo studio è stato reso possibile anche grazie all‘analisi del DNA recuperato da 33 resti recentemente ritrovati e mai analizzati prima. A questi dati sono state aggiunte l’analisi di altri 5 uri vissuti in Eurasia tra quarantasettemila e quattromila anni fa e di otto genomi di bovini antichi dell’Asia Centrale.
Il DNA dell’uro racconta una storia di migrazioni e cambiamenti climatici
L’analisi di questi genomi ha permesso di identificare quattro poli di divergenze genetiche. Uno presente in Europa e tre in Asia: uno al nord e due nel sud-ovest. Tutte queste popolazioni derivano da un antenato comune da cui si sono separati entro centomila anni fa. Le affinità e le divergenze genetiche hanno permesso di ricostruire la storia e i movimenti di queste popolazioni di uri.
In Europa durante l’ultima glaciazione (ventimila anni fa), l’habitat di questi animali si è ristretto molto tanto che si sono dovuti rifugiare in Italia, Francia, nella penisola iberica e nei Balcani. L’Europa centrale infatti si era trasformata in una landa fredda e inospitale.
Terminata la glaciazione molto probabilmente le Alpi in Italia hanno formato una barriera troppo complessa da superare ed è stata la popolazione Iberica a ripopolare il continente. Questa ipotesi è sostenuta dal fatto che nei genomi di animali dell’Europa centro-settentrionale è possibile riscontrare affinità con quelli degli uri spagnoli.
L’arrivo del freddo ha causato anche ulteriori divergenze genetiche. La trasformazione delle foreste europee in una gelida steppa ha limitato fortemente anche l’interazione est-ovest tra gli uri europei e quelli presenti nell’Asia del nord rendendo questo gruppo quello maggiormente distinto rispetto agli altri.
Per quanto riguarda gli uri presenti nel sud-ovest asiatico invece, questi si distribuivano tra l’attuale Turchia e l’Armenia. In questi sono state ritrovate connessioni genetiche con gli uri africani in Marocco. Questa correlazione evidenzia il fatto che questi animali si spostavano probabilmente lungo il litorale sud del Mediterraneo.
Sarà da questa popolazione che intorno a undicimila anni fa cominceranno i primi tentativi di domesticazione. Gli esemplari antichi di Bos taurus, il bovino domestico, presentano componenti genetiche provenienti dagli uri del sud-ovest dell’Asia.
Il ruolo dell’uomo: domesticazione ed estinzione
L’analisi del DNA ha permesso anche di mettere in luce nuovi dettagli sulla domesticazione degli uri.
Gli uri erano tra i più grandi animali dell’sud-ovest asiatico, regione in cui sono state appunto rilevate le prime tracce di domesticazione. Date le loro dimensioni, possiamo immaginare come sia stata complessa la cattura e l’allevamento dei primi animali. Gli uri catturati erano una percentuale piccola rispetto a quelli selvatici. Di conseguenza, anche la diversità genetica nei primi allevamenti di bovini era piuttosto ridotta rispetto ai loro parenti selvatici.
Uri e bovini hanno convissuto per migliaia di anni e questa convivenza ha portato anche a ulteriori incroci. Questo processo ha permesso di introdurre nuovi geni nei bovini allevati (introgressione) che potrebbero averne facilitato l’adattamento a nuovi habitat e alle nuove condizioni di vita.
Inoltre il flusso di geni arriva prevalentemente dagli individui di sesso maschile. Sono stati trovati infatti più alleli selvatici negli autosomi rispetto che nei cromosomi X.
L’uomo ha avuto un impatto però anche sull’estinzione di questi animali.
La caccia per la loro carne, la pelle e le corna e la diminuzione dell’habitat a causa di deforestazione ed espansione dell’agricoltura hanno reso impossibile la sopravvivenza di questo animale.
L’ultimo esemplare di cui si ha notizia, è stato ucciso in Polonia nel 1627.
Curiosamente, nel tentativo di rimediare alla sua estinzione, a partire dagli anni 20 i fratelli Heinz e Lutz Heck hanno cercato di ricreare la specie. I due fratelli hanno incrociato a selezionare e incrociare alcune razze di bovini nel tentativo di ottenere le caratteristiche fisiche e comportamentali dell’uro.
Si stima che a oggi ci siano circa ancora duemila bovini di Heck in Europa. Secondo diversi esperti però alcune razze bovine primitive allevate nel sud Europa, come i tori da combattimento spagnoli, sarebbero maggiormente imparentati con gli uri estinti rispetto ai bovini di Heck.
Riferimenti
Rossi, C., Sinding, MH.S., Mullin, V.E.et al.The genomic natural history of the aurochs.Nature635, 136–141 (2024). https://doi.org/10.1038/s41586-024-08112-6
Immagine: Pitture rupestri di Lascaux (Francia) con raffigurazioni di uro. Image credit: Prof Saxx CC BY-SA 3.0.
Mi sono laureato in Biotecnologie Industriali, e lavoro per una multinazionale che sviluppa test diagnostici per l’industria agroalimentare. Interessato alla comunicazione scientifica per passione, dopo qualche esperienza con un’associazione di divulgazione mi sono iscritto al Master in Giornalismo e comunicazione istituzionale della Scienza dell’Università di Ferrara.