Perché i celacanti non sono “fossili viventi”

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Una review pubblicata su Bioessays mette in discussione la credenza che i celacanti siano dei “fossili viventi”

Il termine “fossile vivente”, sebbene fosse già stato utilizzato da Darwin per indicare specie che hanno subito pochi cambiamenti durante il corso della loro evoluzione, tornò in auge con la scoperta della specie Latimeria calumnae (1938) appartenente ad una sottoclasse di pesci (Actinistia) fino ad allora conosciuta solo attraverso i reperti fossili. Da quel momento in poi, la Latimeria è stata inserita nella categoria degli organismi ritenuti “primitivi” (lamprede, squali, dipnoi, tuatara, solo per citare alcuni vertebrati), cioè che hanno subito pochi o nessun cambiamento nel tempo.

Nel loro articolo pubblicato su Bioessays, Casane D. e Laurenti P., non solo tentano di sfatare il mito del fossile vivente passando in rassegna tutte le evidenze note fino ad oggi, ma sottolineano  come già solo in linea di principio, il termine “fossile vivente” o altri suoi analoghi come “primitivo”, “poco evoluto”, “basale”,”ancestrale”, etc…, siano in contrasto con un corretto tree-thinking.

Per cominciare vengono illustrate le conclusioni di  una serie di studi che assumono una lenta evoluzione morfologica; Per esempio in uno studio si sostiene che la bassa variabilità genetica delle popolazioni, sia la prova del basso tasso di sostituzione, e quindi di una lenta evoluzione molecolare in accordo con la presunta lenta evoluzione morfologica (conseguenza per nulla necessariamente vera, anche se fosse provata l’ipotesi della stasi morfologica). Gli autori inoltre mettono in evidenza come negli studi citati che si occupano del rapporto tra evoluzione molecolare e morfologica, ci sia una netta correlazione tra assumere una lenta evoluzione morfologica e concludere che ci sia una lenta evoluzione molecolare. Sembra quindi che le assunzioni influenzino in modo pericoloso i risultati, e che gli studi  che propendono per un’evoluzione molecolare non particolarmente lenta vengano trascurati.

La verità però è che come mostrato nel dettaglio dagli studiosi, non c’è alcuna prova paleontologica che dimostri che i celacanti attuali del genere Latimeria siano effettivamente uguali a qualche fossile di Actinista estinto; tanto diversi morfologicamente invece, che il genere Latimeria è stato costituito apposta per le due specie attualmente esistenti. Perfino il parente più stretto estinto del genere Macropoma, si rivela essere sostanzialmente diverso, almeno nella struttura scheletrica. Non è vero dunque che esistano prove a favore del fatto che i celacanti siano rimasti in stasi morfologica dal Devoniano. Questa assunzione però è stata fatta, per esempio, nel lavoro comparso su Nature dedicato al sequenziamento del genoma di Latimeria, in cui si afferma che il lento tasso di evoluzione  molecolare (tasso di sostituzione) riscontrato attraverso i dati genomici, spiega in qualche modo la lenta evoluzione morfologica di questa specie (Pikaia ne ha parlato qui). 

Tuttavia il concetto di “fossile vivente” ed  affini sono più adatti ad una concezione progressionista dell’evoluzione, in cui la selezione, guidata da una sorta di forza finalistica,  determina un incremento di complessità e perfezione di cui l’uomo è l’apice. Questa versione (errata) della teoria evoluzionistica è purtroppo molto più popolare di quella corretta, e vicina all’interpretazione di Haeckel, che concepisce la biodiversità come una scala evolutiva simile all’aristotelica “scala naturae”. Tuttavia molti passi avanti sono stati fatti, soprattutto dopo la nascita della cladistica che grazie a W. Hennig ha chiarito il processo di speciazione (cladogenesi), mostrando come una specie ancestrale cessi di esistere una volta formatesi le due specie “sorelle”. Inoltre molti importanti autori tra i quali vi sono Kimura e Gould, hanno rinforzato l’idea che l’evoluzione sia un processo continuo che non si arresta in nessuna linea. Purtroppo però questo paradigma filogenetico noto anche come tree-thinking, ha trovato molte difficoltà nel diffondersi non solo nell’opinione comune, ma perfino nella cerchia degli addetti ai lavori (Pikaia ne ha parlato qui). 

Numerosi infatti sono gli studi che usano organismi ritenuti “primitivi” o “meno evoluti”, come taxa attraverso i quali ricostruire i caratteri ancestrali, o che giustificano la scelta di un certa specie come modello di una certa classe di organismi, in base ad una presunta “basalità”. Non c’è alcuna ragione valida per cui la collocazione nell’albero filgenetico o la povertà di specie esistenti di un clade possa fornire informazioni sullo stato di primitività di un organismo in sé. Tutte le linee evolutive una volta staccatesi dall’antenato comune evolvono in modo indipendente e tutte le specie attualmente viventi sono un mosaico di caratteri primitivi (plesiomorfie) e derivati (apomorfie). Non esistono specie più o meno evolute, più o meno primitive, più o meno fossili. Siamo tutti egualmente evoluti, ogni specie con le proprie peculiarità.


Bibliografia

Brooks DR, McLennan DA. Phylogeny, ecology, and behavior: a research program in comparative biology. Chicago: University of Chicago Press; 1991,

Casane D, Laurenti P. Why coelacanths are not ‘living fossils’. A review of molecular and morphological data. Bioessays 2013;35(4):332–8.

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