Perché non possiamo vivere per sempre? Evidenze dai nematodi
Identificati nel nematode C. elegans alcuni geni che ne influenzano la durata della vita; se vengono silenziati, questi organismi vivono fino al 50% più a lungo rispetto alla media. Tali geni sono responsabili del meccanismo di autofagia, la cui funzione è rimuovere componenti cellulari danneggiate
Alcuni ricercatori dell’Institute for Molecular Biology (IMB) di Meinz, in Germania, hanno scoperto nel nematode Caenorhabditis elegans alcuni geni responsabili di un processo definito autofagia, meccanismo cruciale per la sopravvivenza cellulare. Tali geni promuovono la salute dei vermi giovani, ma sono anche a capo del processo di invecchiamento durante le fasi più avanzate della vita dell’animale. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Genes and Development.
La selezione naturale, ovvero il principale meccanismo mediante cui avviene l’evoluzione, si concretizza nel maggiore tasso di sopravvivenza degli individui più adatti a un determinato ambiente, che così hanno maggiori possibilità di trasmettere il loro patrimonio genetico alle generazioni successive. Più un certo tratto è in grado di determinare successo riproduttivo, e più in teoria dovrebbe essere sottoposto a forte selezione. Partendo da questo assunto, dovrebbero risultare avvantaggiati gli individui con tratti che ne prevengono l’invecchiamento, perché in questo modo potrebbero essere in grado di riprodursi un numero maggiore di volte e quindi trasmettere i loro geni ai figli in maniera pressoché continua.
Ma, come ben sappiamo, ciò non accade in nessuna specie vivente sul nostro pianeta: tutti siamo destinati a invecchiare (se siamo fortunati) e morire, con tempi più o meno lunghi. Dal punto di vista evolutivo, l’invecchiamento rappresenta quindi un paradosso. Perché invecchiamo? Ci sono dei vantaggi che vanno di pari passo con questo inevitabile processo oppure esso è soltanto un piccolo effetto collaterale associato ad altre caratteristiche che sono state selezionate perché vantaggiose?”
Per cercare di dare risposta a tali quesiti, già nel 1953 il biologo americano George C. Williams, scomparso 7 anni fa (Pikaia ne ha parlato qui) formulò la teoria della pleiotropia antagonista (AP), secondo la quale la selezione naturale agirebbe solamente sui geni coinvolti nel successo riproduttivo, ignorandone possibili altri effetti, riguardanti per esempio la longevità. La sola cosa importante è che tali eventuali effetti negativi sopraggiungano dopo il periodo riproduttivo; in questo caso saranno infatti già presenti discendenti in grado di contribuire alla trasmissione di tali geni. Seguendo questo ragionamento quindi, se una mutazione favorisce il successo riproduttivo ma accorcia la durata della vita, essa sarebbe selezionata positivamente.
L’ipotesi secondo la quale certi geni possano contribuire al successo riproduttivo ma siano poi deleteri dopo la riproduzione, era già stata dimostrata attraverso modelli matematici e si può osservare in natura ma mancavano prove genetiche a sostegno. Holger Richly e colleghi dell’Università di Meinz, hanno identificato nel genoma di C. elegans una trentina di geni che operano in maniera antagonista, rispettando le ipotesi fatte da Williams: essi hanno effetti positivi sulla capacità riproduttiva dei nematodi, ma promuovono l’invecchiamento negli esemplari di età più avanzata.
Molti tra i geni identificati, sono implicati nel processo di autofagia, un meccanismo di riciclo da parte della cellula: alcuni organelli cellulari degradati vengono digeriti e scissi nei loro componenti fondamentali, che possono così essere riutilizzati. Tale meccanismo è fondamentale per la salute degli individui più giovani, ma si esaurisce all’aumentare dell’età. Gli scienziati hanno dimostrato che quando il processo di autofagia rallenta la sua attività, essa non risulta più vantaggiosa, ma al contrario prevalgono gli effetti negativi. Pertanto, in questo caso è meglio che essa non agisca affatto.
Il tessuto più interessato da questo effetto si è mostrato essere il sistema nervoso. Spegnendo nei neuroni i geni deputati all’autofagia, i nematodi trattati vivevano fino al 50% più a lungo rispetto agli altri; in quelli più anziani invece, dove era impossibile promuovere un aumento delle aspettative di vita, l’effetto è stato un netto miglioramento delle condizioni di salute globali. Poiché l’autofagia è implicata in diverse malattie degenerative, come il Parkinson, l’Alzheimer e la malattia di Huntingtion, lo studio di questi geni potrà forse essere di grande aiuto anche nel trattamento di queste patologie.
Riferimento:
Thomas Wilhelm, Jonathan Byrne, Rebeca Medina, Ena Kolundžić, Johannes Geisinger, Martina Hajduskova, Baris Tursun, Holger Richly.Neuronal inhibition of the autophagy nucleation complex extends life span in post-reproductive C. elegans.Genes & Development, 2017; 31 (15): 1561 DOI: 10.1101/gad.301648.117
Immagine da Wikimedia Commons