Più lunghi, più a lungo

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E’ molto recente la scoperta di una nuova specie di anomalocaride, pubblicata sull’ultimo numero di Nature: non solo è la più grande conosciuta finora, ma anche sopravvissuta più a lungo. Gli anomalocaridi erano già noti per essere i più grandi animali del Cambriano, circa 50 centimetri di lunghezza, ma la nuova specie scoperta da Peter Van Roy, del Belgio, e […]


E’ molto recente la scoperta di una nuova specie di anomalocaride, pubblicata sull’ultimo numero di Nature: non solo è la più grande conosciuta finora, ma anche sopravvissuta più a lungo.

Gli anomalocaridi erano già noti per essere i più grandi animali del Cambriano, circa 50 centimetri di lunghezza, ma la nuova specie scoperta da Peter Van Roy, del Belgio, e Derek Briggs, di Yale, è lunga esattamente il doppio, un metro, e proviene dall’Ordoviciano, estendendo così di 30 milioni di anni in più la sopravvivenza degli anomalocaridi nel record fossile.

La scoperta è l’ultima di una lunga serie di fossili ritrovati in giacimenti di eccezionale qualità di conservazione, chiamati fossillagerstaette. Il giacimento in questione è in Marocco, risalente all’Ordoviciano, 488-472 milioni di anni fa. Gli anomalocaridi erano predatori di altri invertebrati bentonici ed erano dotati di nuoto attivo. Per cacciare utilizzavano delle appendici articolate e spinose presenti sul capo, poste anteriormente alla bocca circolare e capaci di portare le prede alla bocca stessa. In questi nuovi fossili sono state scoperte delle serie di filamenti, presenti sul dorso, con probabile funzione respiratoria (branchie).

Di affinità filogenetiche dapprima sconosciute (i primi furono scoperti nella fauna delle Burgess Shales. Pikaia ne ha parlato qui) recentemente, con la scoperta di nuovi fossili sempre meglio conservati, si sono poi rivelati appartenenti al clade dei lobopodi strettamente imparentati agli attuali onicofori e tardigradi.

Giorgio Tarditi Spagnoli

Riferimenti:
Peter Van Roy, Derek E. G. Briggs; A giant Ordovician anomalocaridid, Nature 473: 510–513 doi:10.1038/nature09920