Riceviamo e pubblichiamo…

Note di divulgazione quotidianaIl tema delle competenze professionali nella divulgazione scientifica (e delle conseguenti responsabilità culturali) è uno degli argomenti più complessi e interessanti della relazione tra scienza e società. I ricercatori si suppone conoscano bene il contenuto, i giornalisti dovrebbero conoscere la forma di trasmetterlo. Se sulla carta la divisione dei lavori è chiara, poi nel quotidiano questa linearità […]


Note di divulgazione quotidiana

Il tema delle competenze professionali nella divulgazione scientifica (e delle conseguenti responsabilità culturali) è uno degli argomenti più complessi e interessanti della relazione tra scienza e società. I ricercatori si suppone conoscano bene il contenuto, i giornalisti dovrebbero conoscere la forma di trasmetterlo. Se sulla carta la divisione dei lavori è chiara, poi nel quotidiano questa linearità è molto difficile da incontrare. È chiaro che si parla di un contesto con molti fattori, che includono vincoli intrinsechi delle rispettive discipline ma anche i limiti reali e umani dei contesti professionali. I giornalisti a volte non riescono o non vogliono entrare nella questione reale del tema scientifico, trasmettendo un messaggio troppo superficiale o addirittura fuorviante. Allo stesso tempo in molte situazioni i ricercatori non sono capaci di usare semplici regole di estetica grammaticale o di struttura logica per condividere i loro risultati con un pubblico che, indipendentemente dalle informazioni di partenza, non parte dagli stessi presupposti. L’argomento è incredibilmente complesso, e merita tutte le attenzioni del caso. Vorrei introdurne qui solo due aspetti fondamentali.

Il primo è la differenza enorme e spesso inconciliabile tra teoria e pratica. Se è vero che c’è una forte questione epistemologica dietro a questo dibattito, e che sia necessario analizzarne le sfumature concettuali per poterlo interpretare, allo stesso tempo non è possibile dimenticare che c’è anche una componente pragmatica e di vita reale che potrebbe avere un peso ben maggiore delle componenti teoriche. Sto parlando di tutti quei fattori terra terra che fanno parte non della teoria ma della quotidianità, e che alla fine forse spiegano una parte importante del risultato finale. Giornalisti e ricercatori (come tutti coloro che vedono le loro necessità economiche vincolate e un salario, buono o cattivo che sia) devono rimediare la loro pagnotta, sbarcare il lunario, compiere le aspettative dei loro capi, sbrigare le faccende in tempi record, e perché no anche farcire a dovere il proprio ego e quello dei gruppi che rappresentano, istituzionalmente o no. Non dobbiamo pensare che le difficoltà nella comunicazione scientifica siano solo nella teoria di chi ha responsabilità e competenze, o nel contesto strettamente cognitivo di un individuo. Quando la teoria finisce, inizia la pratica, fatta di fretta, di risorse limitate, di egocentrismi, di scelte forzate, di incarichi superficiali, di economie di vendita, di budget, e di frustrazioni. Il lato umano del problema va ben oltre quello epistemologico, per il giornalista come per il ricercatore. Spesso ci si concentra sull’individuo, dimenticando di considerare l'”ambiente”. E quando l’ambiente vincola, prima bisogna lavorare sui limiti propri del sistema, se si vuole arrivare ad analizzare il soggetto senza le influenze esterne. Certo, poi vengono anche i problemi sui contenuti, e lì ci sarebbe da dire davvero troppo. E vale senza dubbio la pena ricordare che, al di là delle teoriche responsabilità professionali, ci sono le reali capacità personali, che rendono spesso inutile e incauto associare troppo strettamente un certo compito a una determinata classe lavorativa.

Il secondo punto è la considerazione del giudizio dei lettori. Stiamo tardando molto a riconoscere che la cosiddetta “saggezza popolare” non sempre è garanzia dei contenuti. A volte le vecchie tradizioni centrano il bersaglio, come a volte lo mancano vistosamente. E questo perché, come tutti i sistemi umani, non sono mai infallibili. Allo stesso modo, e forse anche per un certo buonismo tipico dei nostri tempi, tendiamo a riconoscere al pubblico un potere e diritto di giudizio che, in quanto pubblico, non può avere. I giornalisti e i ricercatori hanno infatti la responsabilità di portare “oltre” il lettori. Oltre vuol dire più in là di dove loro [i lettori, n.d.b.] possano arrivare da soli. Il che implica che se devono scegliere da soli, non hanno gli strumenti per farlo, e restano fermi. Il lettore in genere vuole conferme. Spesso non apprezza il nuovo, il rimettersi in discussione proprio della scienza, le incertezze proprie della ricerca, ma cerca la sicurezza, la stabilità. Giornalisti e ricercatori devono tirare il carro più in là di quello che il carro possa fare da solo. Quando si tenta di compiacere il lettore, trasformandolo inoltre in cliente, si snatura il mandato stesso della divulgazione. Il potere e diritto di giudizio sul contenuto sono caratteristiche di fatto tipiche di un cliente, e non di un pubblico. E sappiamo bene, in una società come la nostra fatta più di calcio e ballerine che non di scienza e cultura, di quanto possa essere pericoloso lasciare al pubblico il giudizio. Se si lascia il giudizio al pubblico, ricercatori e giornalisti entreranno in una gara a chi offre di più al cliente, dando al cliente quello che il cliente vuole, a tutti i costi.

Tornando al centro del tema sulla divulgazione anche io, come in molti che trattiamo questo argomento, non ho risposte certe. Giornalisti e ricercatori hanno non solo professionalità ma anche prospettive e necessità molto differenti. Nel dubbio delle responsabilità, meglio provvedere a una sintesi: giornalisti e ricercatori dovrebbero sempre collaborare, pensando con due teste e scrivendo a quattro mani!

Emiliano Bruner





Una modesta proposta

Sono d’accordo con Emiliano sull’analisi del problema, e in particolare su alcuni punti, e non sono del tutto convinto di altri. Ha ragione quando dice che la quotidianità e la necessità di sbarcare il lunario spesso hanno la meglio sulla correttezza dell’informazione. Moltissimi dei colleghi che si vedono stigmatizzare le affermazioni su Facebook (anche da me) scrivono cose sbagliate perché non hanno tempo, perché sono stati catturati dov’erano per scrivere di scienza anche se non avevano le competenze. Proprio questa mancanza di conoscenza dell’argomento è un fatto non presente sopra: Emiliano dà per scontato che il giornalista abbia, oltre alla capacità di scrivere e ai mezzi per farlo (tecnici e della professione) anche una minima preparazione nell’argomento. Non è sempre così, come dimostra questo articolo, in cui Valeria Pini (al di là dell’endorsement di un totale suonato come Montagnier – non Montaigner, come nell’articolo) pensa che si possano combattere i virus con gli antibiotici. Ecco il passo incriminato:

    TUTTA COLPA di un virus. Per l’autismo bisogna seguire la pista infettiva. Ora le prime cure a base di antibiotici hanno dato risultati incoraggianti.

Anche se uno ha tutto il tempo che vuole, il capo che gli permette di scrivere qualsiasi cosa, i mezzi per contattare i più grandi ricercatori, se poi non conosce la differenza tra virus e batteri, che pezzo scriverà? Non si farà abbindolare anche da “cure” inefficaci come l’omeopatia? Al di là della collega, però, la mancanza di preparazione è, e mi ripeto, uno degli ostacoli alla migliore divulgazione. E non solo del singolo giornalista, ma anche e soprattutto delle gerarchie superiori: non mi stupirei se nell’articolo sopra un brillante caporedattore abbia avuto un colpo di genio e attaccato con un virus perché gli piaceva la parola. Non è la prima volta che colleghi e amici mi raccontano di posizioni preconcette dei “capi” che non vogliono sentire ragione e pubblicano quello che vogliono perché “Sì è sempre detto o pensato così”. Dimostrando in tal modo un’altra ignoranza, quella del meccanismo della scienza: la scienza e la ricerca sono interessanti anche perché si autocorreggono, e cambiano idea spesso e volentieri. Non per capriccio, ma perché nuovi dati vengono a smentire quello che si pensava fino a poco tempo fa.

Chi non è abituato a questo approccio, a questa apparente volubilità, rimane attaccato a vecchi paradigmi (l’ho detto…) e prende molto male il fatto che le ipotesi cambino di giorno in girono e ben difficilmente divengano teorie consolidate. E chi sono quelli che più rimangono sconcertati da questo modo di fare? Proprio il pubblico, i lettori, i clienti di cui parla Emiliano. Che dovrebbero, però, secondo lui, affidarsi alla “sapienza” e alla professionalità del giornalista e farsi trascinare verso mondi diversi e più avanzati, verso visioni strane e soprattutto lontane dal senso comune. D’accordo anche su questo, ma la posizione è esattamente opposta a quella della maggior parte dei gerarchia della stampa (non solo la divulgazione scientifica). Se il popolo vuole Chi, diamogli gossip, veline e grandi fratelli; non siamo noi a dover decidere i gusti del lettore. Una posizione, faccio notare, esattamente opposta al resto del mondo capitalistico, che produce strumenti che creano i bisogni (tablet, anyone, direbbero gli inglesi) piuttosto che seguire i gusti del pubblico – che forse vorrebbe ancora i telefonini di dimensioni umane, non minuscoli aggeggini in cui non si leggono i tasti.
L’ultima proposta è quella su cui sono più d’accordo: scriviamo a quattro mani. Ma funziona se, e solo se, ognuno dei due attori del dramma cede una parte del suo ego: il giornalista quella che comanda la ricerca dello scoop a tutti i costi, la scrittura brillante e letteraria, la voglia di stupire. Lo scienziato la precisione maniacale, i distinguo inutili, la presentazione senza picchi e valli di interesse. E tanto altro. Che dire, mettersi intorno a un tavolo e scambiarsi idee (non preconcette) potrebbe essere fatto. A questo punto tutti potrebbero dire:

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Marco Ferrari



Da Leucophaea, il blog di Marco Ferrari