Self o non self? Questo è il problema!
I meccanismi attraverso i quali gli animali riconoscono e discriminano i conspecifici come parenti più o meno stretti, sono ancora poco noti. Un importante contributo all’aumento di tale comprensione, però, è stato recentemente fornito da uno studio condotto sui citelli di Belding (Urocitellus beldingi): tale studio, descritto in un articolo pubblicato di recente sulla rivista Animal Behaviour, fornisce infatti una […]
I meccanismi attraverso i quali gli animali riconoscono e discriminano i conspecifici come parenti più o meno stretti, sono ancora poco noti. Un importante contributo all’aumento di tale comprensione, però, è stato recentemente fornito da uno studio condotto sui citelli di Belding (Urocitellus beldingi): tale studio, descritto in un articolo pubblicato di recente sulla rivista Animal Behaviour, fornisce infatti una delle poche dimostrazioni sperimentali realizzate di quel meccanismo di riconoscimento della parentela che va sotto il nome di ‘self-referent phenotype matching’. Di cosa si tratta?
Spiegarlo non è impresa facile, dal momento che la spiegazione implica necessariamente il ricorso a molte altre nozioni altrettanto poco comuni. Non è un caso che l’autrice dell’articolo abbia deciso di dedicare la primissima parte di quest’ultimo ad alcune fondamentali precisazioni terminologiche. Innanzitutto, ella definisce il riconoscimento della parentela (‘kin recognition‘) come « […] un processo interno di stima della parentela genetica che viene inferito attraverso la discriminazione della parentela [‘kin discrimination‘], il trattamento preferenziale osservabile dei conspecifici basato su segnali che variano con la parentela.». La discriminazione della parentela, insomma, suggerisce all’osservatore umano l’esistenza di un processo sottostante (il riconoscimento della parentela, appunto) che si potrebbe qualificare mentale o psicologico. L’ipotesi di lavoro dell’autrice, infatti, è che l’animale sviluppi in qualche modo un ‘template’ di riconoscimento (‘recognition template‘), e cioè una rappresentazione conservata o memoria di certe etichette (‘labels‘), e che confronti con questo ‘template‘ le etichette percepite negli altri: la parentela che l’individuo focale intrattiene con questi altri individui, verrebbe stimata in base al grado di corrispondenza (‘matching‘) tra le etichette percepite ed il ‘template‘ consultato. Quanto abbiamo appena detto, però, accomuna tra loro più meccanismi di riconoscimento della parentela, mentre a noi preme di capire, soprattutto, in cosa consista il ‘phenotype matching‘. Quest’ultimo è un meccanismo che, mediante una generalizzazione dai ‘template‘, consente ad un individuo di riconoscere, oltre ai parenti familiari, anche i parenti non familiari: l’individuo apprende i propri fenotipi e/o i fenotipi dei propri parenti familiari, e successivamente confronta fenotipi non familiari con il ‘template‘ così appreso. Più precisamente: quando l’individuo si basa sui propri fenotipi, nella costruzione del ‘template‘, si parla di ‘self-referent phenotype matching‘, e cioè dell’uso dei propri segnali (‘cues‘) come un referente (‘referent‘) per riconoscere i parenti; quando l’individuo si basa sui fenotipi dei propri parenti familiari, invece, si parla di ‘kin-referent phenotype matching‘, e cioè dell’uso dei segnali dei propri parenti familiari come un referente per riconoscere i parenti. Concettualmente, la distinzione tra queste due forme di ‘phenotype matching‘ è chiara; sul piano empirico, però, non è affatto facile discriminare l’una dall’altra. L’autrice dell’articolo, però, ha trovato un modo ingegnoso di farlo, un modo che sfrutta una caratteristica peculiare dei citelli di Belding. Quale? Per rispondere a questa domanda, è necessario approfondire la nostra conoscenza di queste simpatiche bestiole.
I citelli di Belding sono piccoli roditori sociali che vivono nelle regioni montane e sub-montane degli Stati Uniti occidentali. La biologia di questi animali ha indotto alcuni ricercatori a formulare la previsione che essi facciano uso di una qualche forma di ‘phenotype matching‘. In questi animali, effettivamente, è stata riscontrata la capacità di distinguere tra ‘full-siblings‘ familiari (due individui vengono detti ‘full-siblings‘ quando condividono entrambi i genitori) e ‘half-siblings‘ familiari (due individui vengono detti ‘half-siblings‘ quando condividono un genitore soltanto), così come tra ‘half-siblings‘ paterni non familiari e non-parenti non familiari: due distinzioni che possono essere realizzate soltanto con una forma di ‘phenotype matching‘. Prima di questo studio, però, i ricercatori non sono stati mai in grado di attribuire con certezza un riconoscimento qualsiasi ad una forma particolare di ‘phenotype matching‘. L’autrice dell’articolo, invece, ha intravisto nel comportamento ibernante di questi animali la possibilità di realizzare una precisa attribuzione. Dopo l’ibernazione, gli animali sono ancora in grado di distinguere i parenti familiari dai non-parenti familiari, ma non sono più in grado di distinguere i non-parenti familiari dai non-parenti non familiari. Durante l’ibernazione, le memorie degli individui familiari vengono chiaramente perdute; ma che cosa accade ai ‘template‘ famigliari? Vengono conservati o vengono anch’essi perduti? In gioco c’è il tipo di ‘phenotype matching‘ utilizzato, dopo l’ibernazione, per realizzare le distinzioni di cui sopra. Una prima ipotesi è che i ‘template‘ famigliari, dopo l’ibernazione, vengano mantenuti ed utilizzati per il riconoscimento della parentela: in altre parole, il meccanismo di riconoscimento implicato sarebbe il ‘kin-referent phenotype matching‘. Una seconda ipotesi è che i ‘template‘ famigliari vengano persi, rendendo necessaria, dopo l’ibernazione, la formazione di un nuovo ‘template‘ mediante ‘self-referent phenotype matching‘; ed è dal confronto con questo nuovo ‘template‘ che l’animale riuscirebbe ad effettuare le distinzioni di cui è risultato all’altezza. Nell’articolo, l’autrice illustra un esperimento concepito e condotto appositamente allo scopo di discriminare tra queste due ipotesi. Il disegno sperimentale è piuttosto complesso, ma esso consiste sostanzialmente in una combinazione tra un intervento di ‘cross-fostering‘ (creazione di cucciolate composte in parte da individui imparentati ed in parte da individui non imparentati mediante lo scambio di cuccioli tra cucciolate generate da madri diverse) e l’esecuzione di un test di discriminazione olfattiva successivo ad una ibernazione indotta in laboratorio. I risultati di questo studio dimostrano, sperimentalmente, la validità della seconda ipotesi (ipotesi del self).
Alessandro Rocca
Riferimenti
Fletcher, D. J. C. & Michener, C. D. : Kin Recognition in Animals (1987);
John Wiley & Sons, New York Mateo, J. M. : Self-referent phenotype matching and long-term maintenance of kin recognition (2010); Animal Behaviour 80, 929-35 (doi:10.1016/j.anbehav.2010.08.019)