Sempre meglio che morire giovani
Tra le tante caratteristiche tipicamente umane una in particolare è forse meno conosciuta ma non per questo meno importante, anzi, probabilmente è l’ultima a cui molti rinuncerebbero: comparata a quella degli altri primati la durata della nostra vita è molto più estesa. Se noi riusciamo a superare agevolmente i 70 anni e talvolta anche i 100, solo raramente gli scimpanzé e […]
Tra le tante caratteristiche tipicamente umane una in particolare è forse meno conosciuta ma non per questo meno importante, anzi, probabilmente è l’ultima a cui molti rinuncerebbero: comparata a quella degli altri primati la durata della nostra vita è molto più estesa. Se noi riusciamo a superare agevolmente i 70 anni e talvolta anche i 100, solo raramente gli scimpanzé e le altre antropomorfe riescono a sopravvivere oltre i 50 anni. Considerate le notevoli risorse investite nel corso degli ultimi anni nella ricerca sui processi dell’invecchiamento era facile aspettarsi qualche indizio su come questo prolungamento della vita media sia potuto accadere ai nostri antenati, e proprio in questa direzione ci porta la recente ricerca pubblicata su PNAS da Caleb Finch, professore presso la Davis School of Gerontology e la University of Southern California.
Tutto comincia con il consumo di carne che diventando man mano più rilevante ha richiesto ai corpi dei nostri antenati una serie di aggiustamenti. Più carne significa anche più colesterolo e trigliceridi, e per questo motivo nel nostro sangue è presente una versione speciale dell’apolipoproteina E (utilizzata anche dagli altri primati per lo stesso scopo), che ci permette di gestire questa dieta tanto particolare per un primate. Il gene che specifica questa proteina, ApoE, scherma inoltre il nostro corpo anche dall’azione dei numerosi parassiti e dalle infezioni che il consumo di carne cruda, a volte recuperata da carcasse in decomposizione, può portare con sé. Tutto bene finora, non fosse che questo gene è polimorfico e presente nella popolazione essenzialmente in tre forme: ApoE2, ApoE3 e ApoE4. Se ApoE3, presente nella maggior parte della popolazione umana, è tanto efficacie nelle maniere sopra descritte, lo studio di Caleb Finch ci svela qualcosa di precedentemente poco conosciuto sulla forma ApoE4. Questa sembra essere fortemente implicata, oltre che con una minore efficienza nello sviluppo neuronale, proprio nei malanni “tipici” della vecchiaia: problemi di cuore, sindrome di Alzheimer e demenza senile.
La spiegazione di Finch riguardo a questo fenomeno è particolarmente suggestiva e tira in ballo una delle teorie più generali sulla parte terminale della nostra vita, la teoria cosiddetta “antagonista” dell’invecchiamento. Secondo questa ipotesi i geni che ci aiutano in gioventù, in questo caso nel limitare gli effetti negativi che il consumo di carne, importante per altri versi, ha portato con sé, possono essere responsabili di tutti quei disagi della vecchiaia per i quali spesso è difficile trovare una spiegazione. ApoE sembra essere, quantomeno per Finch, un esempio perfetto di questo meccanismo: qualche sacrificio nella vecchiaia per avere in cambio qualche anno in più di giovinezza.
Marco Michelutto
Riferimenti:
Fonte dell’immagine: Wikimedia Commons