Sono cavoli amari!
Gli esseri umani sono naturalmente portati ad apprezzare il gusto dolce, legato alla capacita’ di procurarsi un nutrimento ricco di energia quale quello dei carboidrati. La sensibilita’ e spesso il senso di disgusto nei confronti dell’amaro si sono invece evoluti come sistema di difesa contro veleni e tossine ambientali, sviluppati in gran parte dalle piante per difendersi dall’attacco degli animali […]
Gli esseri umani sono naturalmente portati ad apprezzare il gusto dolce, legato alla capacita’ di procurarsi un nutrimento ricco di energia quale quello dei carboidrati. La sensibilita’ e spesso il senso di disgusto nei confronti dell’amaro si sono invece evoluti come sistema di difesa contro veleni e tossine ambientali, sviluppati in gran parte dalle piante per difendersi dall’attacco degli animali vegetariani.
Dal punto di vista fisiologico, i gusti vengono percepiti sulla lingua in virtu’ di specifici recettori resi funzionali dalle proteine prodotte da relativi geni. Il genetista delle popolazioni Stephen Wooding, del UT Southwestern Medical Center di Dallas, sta studiando le variazioni genetiche in una popolazione umana che determinano una diversa percezione del gusto amaro. Gia’ negli anni trenta del Novecento alcuni scienziati sottoposero un campione di popolazione all’assaggio di una molecola sintetica amara denominata PTC (feniltiocarbammide), scoprendo che la diversa percezione o abilita’ di riconoscere il gusto amaro era controllato geneticamente: ci sarebbero poi voluti piu’ di settant’anni per scoprire il gene responsabile della sensibilita’ alla PCT . Oggi si sa che ben 25 geni funzionali e altri 8 pseudogeni, riuniti nella famiglia T2R, sono implicati nella sensibilita’ all’amaro: le proteine prodotte legano infatti le molecole delle sostanze amare disperse nella saliva che vanno a stimolare le opportune papille gustative.
E proprio analizzando le piccole variazioni che questi geni hanno subìto nel tempo, Wooding ha scoperto che nel corso dell’evoluzione ha avuto luogo un processo di “bilanciamento” della selezione naturale, specialmente tra i primati: oggi ci ritroviamo infatti con forme differenti degli stessi geni che convivono stabilmente nel pool genico di una popolazione, e che determinano l’esistenza di individui che riescono distintamente a percepire l’amaro, mentre altri hanno perso questa capacita’. Questo perche’ dal punto di vista evolutivo, la sensibilita’ o meno al gusto amaro non si e’ rivelata una questione di sopravvivenza della specie: in questo caso, infatti, le varianti non sensibili all’amaro sarebbero rapidamente scomparse da pool genico. Potrebbero inoltre essere presenti piu’ fattori interagenti: ad esempio, coloro che non sono particolarmente sensibili all’amaro potrebbero presentare una particolare sensibilita’ ad altre sostanze, risultando cosi’ protetti da esse. Inoltre le varianti umane non sensibili all’amaro potrebbero aver tratto giovamento dalla cura con fitofarmaci di sapore amaro, come ad esempio il chinino ed altri agenti antimalarici. La ricerca in questo campo e’ piu’ che mai attiva: si sta sondando la variabilita’ dei vari geni T2R al variare del gene del recettore della PCT.
E poi, a prescindere dall’abilita’ o meno di percepire il gusto amaro, e’ interessante indagare sulle ragioni culturali che oggi influenzano le nostre scelte alimentari, portandoci ad amare oppure ad odiare alimenti come i cavoletti di Bruxelles: l’autore, ad esempio, si e’ scoperto geneticamente sensibile alla PCT e si dichiara un discreto amante dell’amaro.
Lo studio di Wooding e’ stato presentato all’ultimo meeting annuale della prestigiosa American Association for the Advancement of Science, tenutosi lo scorso febbraio a San Francisco, con un seminario dal titolo “Evolution: A Study in Bad Taste?”
Paola Nardi