Un ghepardo “vulnerabile” segnato già dal Pleistocene

800px Cheetah Acinonyx jubatus in Maasai Mara 2012 08B

Due colli di bottiglia risalenti all’epoca del Pleistocene sono le principali cause della bassa diversità genetica del ghepardo che pone questa specie a rischio di estinzione

L’Era Cenozoica (65,5 milioni di anni fa) si contraddistingue principalmente per la grande radiazione dei mammiferi. Questi, nonostante siano apparsi già nel Triassico superiore, hanno potuto liberamente espandersi (sia come numero di specie che come dimensioni) soltanto dopo la scomparsa dei dinosauri e grazie anche al rimodellamento dei continenti che ha favorito gli interscambi faunistici. Infatti, l’evoluzione geodinamica delle terre emerse ha portato all’apertura di nuove vie di passaggio per i mammiferi terrestri i quali hanno potuto invadere nuovi territori, spesso soppiantando le specie native. Ad esempio, nella prima parte dell’Era, erano presenti due vie migratorie che connettevano il Nord America e l’Eurasia. La prima, nota come “Via Groenlandia”, congiungeva direttamente il Nord America e l’Europa, scomparsa poi con l’apertura progressiva dell’oceano Atlantico. La seconda, la “Via di Bering”, apriva la strada alle specie asiatiche e nord americane, attivandosi a più riprese a seconda dei ritmi di glaciazione che facevano abbassare il livello del mare e consentivano quindi il passaggio. La dispersione dei mammiferi verso nuovi territori, nonostante abbia facilitato gli interscambi di faune, ha comportato alle volte una considerevole declino delle loro popolazioni e, quindi, una conseguente riduzione della diversità genetica (fenomeno del collo di bottiglia).

In un recente studio, pubblicato su Genome Biology, si analizza proprio quest’ultimo aspetto, prendendo in oggetto il mammifero più veloce al mondo: il ghepardo (Acinonyx jubatus). Grazie a lunghe zampe, un cranio piccolo e aerodinamico e artigli semiretrattili, questo animale può superare i cento chilometri orari durante la corsa. Attualmente, il suo areale si estende tra l’Africa orientale e meridionale, in più c’è una piccola popolazione relitta in Iran appartenente alla sottospecie asiatica (Acinonyx jubatus venaticus). Imparentato con il puma americano (Puma concolor), il ghepardo era diffuso anche in America, dove scomparve durante l’estinzione dei grandi mammiferi (all’incirca 11-12000 anni fa), Europa e Asia. Attraverso le analisi sul DNA di sette individui (tre della Tanzania, quattro della Namibia), è emerso che la specie, partendo dal Nord America, si sarebbe diretta verso l’Africa, passando dallo stretto di Bering e l’Asia.

Questi spostamenti sarebbero proprio una delle principali cause della bassa variabilità genetica attuale. Gli autori infatti, suggeriscono che durante il Pleistocene siano avvenuti due eventi di collo di bottiglia genetici. Il più antico coinciderebbe proprio con queste grandi migrazioni dal Nord America verso l’Africa (all’incirca 100000 anni fa). Un secondo sarebbe avvenuto invece in Africa, coincidente con l’estinzione dei grandi mammiferi, che avrebbe ulteriormente abbassato la diversità genetica delle popolazioni di Namibia e Tanzania. Parlando proprio di variabilità genetica, i risultati ottenuti dalla comparazione del loro DNA con altre specie di felidi (gatto domestico e leone) e mammiferi (uomo, gorilla, diavolo della Tasmania), suggeriscono, ad esempio, che il genoma di ogni singolo ghepardo era omozigote almeno per il 93% e presentava la più bassa incidenza di varianti di singolo nucleotide (SNV) rispetto alle altre specie prese in esame. Inoltre, è stato osservato che un elevato numero di mutazioni non sinonime nel gene AKAP4, coinvolto nello sviluppo degli spermatozoi, causa significative alterazioni nella forma e dimensioni di questi ultimi (80% di spermatozoi malformati).

Gli autori sottolineano quindi che la bassa diversità genetica del ghepardo africano può influenzarne indirettamente lo stato di conservazione (listato dalla IUCN come “Vulnerabile”), dal momento che questa causa un’elevata mortalità dei giovani, difficoltà nel farli riprodurre in cattività e una maggiore vulnerabilità alle malattie.


Riferimenti:
Dobrynin P. et al. (2015). Genomic legacy of the African cheetah, Acinonyx jubatus. Genome Biology, doi:10.1186/s13059-015-0837-4

Immagine: By Zinneke (Own work) [CC BY-SA 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons