Una nuova teoria sulla “sindrome da domesticazione”
La domesticazione modifica la sessualità degli animali. Secondo una ricerca questo cambiamento comporta adattamenti simili in animali diversi.
Cos’hanno in comune i cani, i cavalli e le api? Nulla verrebbe da pensare. Tutti e tre gli animali però sono stati domesticati dall’uomo. Il processo di domesticazione ha coinvolto nei millenni numerosi animali selvatici. Curiosamente, in questo processo emergono alcune caratteristiche che si ripetono spesso anche in animali molto diversi tra loro tanto che gli scienziati hanno cominciato a parlare di sindrome da domesticazione.
Dal 2014 una teoria molto accreditata e ampiamente citata ha ipotizzato che alla base ci siano delle ragioni genetiche.
Secondo una recente review però questa teoria potrebbe non essere corretta. Anzi, secondo alcuni la sindrome da domesticazione non esiste.
La situazione è molto affascinante per gli scienziati, perché se i cambiamenti sono sempre gli stessi vuol dire che è possibile determinare in maniera oggettiva lo stato di domesticazione di una specie esaminando le differenze sviluppate rispetto ai parenti selvatici.
Nel 2014 viene pubblicato un articolo che ipotizza che questi cambiamenti dipendano da modificazioni genetiche a carico delle cellule della cresta neurale; una struttura embrionale pluripotente cioè capace di originare diversi tessuti, organi e tipi di cellule.
Questa ipotesi sembrerebbe supportata dal fatto che in diverse specie domestiche come nel cane, nel gatto, e nel cammello, ma anche in molte altre, sono effettivamente osservabili modifiche a carico della cresta neurale. Si tratta della teoria a oggi più citata e più accreditata per spiegare la sindrome da domesticazione.
Essendo una struttura embrionale alla base di numerose componenti nell’individuo si spiegherebbe infatti come mai la “sindrome” coinvolga tratti molto diversi tra loro, come l’aggressività e la pigmentazione del corpo, a seguito di un solo processo: la domesticazione.
In biologia questo fenomeno viene definito pleiotropia: alla base di fenotipi multipli c’è un unico fattore genetico.
Le prime critiche e una teoria alternativa
Non tutti si sono trovati d’accordo con la spiegazione proposta da Wilkis e i suoi collaboratori. I più critici sostengono addirittura che non esistano in letteratura prove che supportino l’esistenza della sindrome da domesticazione. Altri invece non escludono l’esistenza di questi cambiamenti condivisi tra specie differenti, ma sostengono che difficilmente possano essere riconducibili alle cellule della cresta neurale.
Proprio in questo contesto infatti si inserisce la recente review di Gleeson e Wilson che propone una chiave di lettura alternativa.
I due ricercatori sostengono che l’interruzione di un regime selvatico negli animali comporta dei cambiamenti funzionali simili, a cui gli animali rispondono con cambiamenti fenotipici simili.
In particolare, la domesticazione influenza direttamente la sessualità.
Nei maschi la selezione di un comportamento più docile riduce la popolazione a disposizione per la riproduzione e riduce la competizione tra individui. Le femmine invece vengono selezionate in base all’alta capacità riproduttiva (vivere con gli uomini significa avere più risorse e meno predatori), e per il ridotto stress materno in cattività.
Non c’è una componente genetica comune alla base ma è la selezione che viene esercitata sulle strategie riproduttive che sono simili anche in animali diversi. Il risultato di tutto ciò sono dei fenotipi con caratteristiche comuni.
Come per esempio alcune molecole legate alla mediazione dello stress da maternità e alla fertilità femminile e altre connesse al combattimento nei maschi.
Per quanto sia completa questa teoria però non esclude che in alcuni casi alla base di tratti comuni ci possano essere anche fattori genetici o biofisici. Nell’idea dei ricercatori lo studio potrà essere utilizzato per una revisione della letteratura sulla domesticazione. Inoltre la speranza dei ricercatori è che la review permetta ai colleghi di apprezzare l’enorme complessità che si cela dietro il fenomeno della domesticazione.
Riferimenti:
Immagine: di ZigmarBerzins da Pixabay
Dal 2014 una teoria molto accreditata e ampiamente citata ha ipotizzato che alla base ci siano delle ragioni genetiche.
Secondo una recente review però questa teoria potrebbe non essere corretta. Anzi, secondo alcuni la sindrome da domesticazione non esiste.
La sindrome da domesticazione e le cellule della cresta neurale
Minor paura dell’uomo, un atteggiamento più docile, riduzione delle misure del corpo e del cranio e pigmentazione alterata. Questi sono i fattori comuni spesso osservati nel passaggio da animale selvatico a domestico. Sembra che si inneschi un processo automatico: ogni volta che un animale perde la sua selvaticità si modificano gli stessi tratti comportamentali e fisici. Questo è vero soprattutto nelle prime fasi della domesticazione, dove non c’è una scelta consapevole da parte dell’uomo. Non c’è quindi una selezione volontaria di queste caratteristiche, avvengono in maniera spontanea e casuale.La situazione è molto affascinante per gli scienziati, perché se i cambiamenti sono sempre gli stessi vuol dire che è possibile determinare in maniera oggettiva lo stato di domesticazione di una specie esaminando le differenze sviluppate rispetto ai parenti selvatici.
Nel 2014 viene pubblicato un articolo che ipotizza che questi cambiamenti dipendano da modificazioni genetiche a carico delle cellule della cresta neurale; una struttura embrionale pluripotente cioè capace di originare diversi tessuti, organi e tipi di cellule.
Questa ipotesi sembrerebbe supportata dal fatto che in diverse specie domestiche come nel cane, nel gatto, e nel cammello, ma anche in molte altre, sono effettivamente osservabili modifiche a carico della cresta neurale. Si tratta della teoria a oggi più citata e più accreditata per spiegare la sindrome da domesticazione.
Essendo una struttura embrionale alla base di numerose componenti nell’individuo si spiegherebbe infatti come mai la “sindrome” coinvolga tratti molto diversi tra loro, come l’aggressività e la pigmentazione del corpo, a seguito di un solo processo: la domesticazione.
In biologia questo fenomeno viene definito pleiotropia: alla base di fenotipi multipli c’è un unico fattore genetico.
Le prime critiche e una teoria alternativa
Non tutti si sono trovati d’accordo con la spiegazione proposta da Wilkis e i suoi collaboratori. I più critici sostengono addirittura che non esistano in letteratura prove che supportino l’esistenza della sindrome da domesticazione. Altri invece non escludono l’esistenza di questi cambiamenti condivisi tra specie differenti, ma sostengono che difficilmente possano essere riconducibili alle cellule della cresta neurale.Proprio in questo contesto infatti si inserisce la recente review di Gleeson e Wilson che propone una chiave di lettura alternativa.
I due ricercatori sostengono che l’interruzione di un regime selvatico negli animali comporta dei cambiamenti funzionali simili, a cui gli animali rispondono con cambiamenti fenotipici simili.
In particolare, la domesticazione influenza direttamente la sessualità.
Nei maschi la selezione di un comportamento più docile riduce la popolazione a disposizione per la riproduzione e riduce la competizione tra individui. Le femmine invece vengono selezionate in base all’alta capacità riproduttiva (vivere con gli uomini significa avere più risorse e meno predatori), e per il ridotto stress materno in cattività.
Non c’è una componente genetica comune alla base ma è la selezione che viene esercitata sulle strategie riproduttive che sono simili anche in animali diversi. Il risultato di tutto ciò sono dei fenotipi con caratteristiche comuni.
Il ruolo della cresta neurale
Un dubbio però rimane. Perché negli animali domesticati si osserva una modifica nella fisiologia delle cellule della cresta neurale? La risposta è apparentemente semplice: tra i vari tratti influenzati dallo sviluppo della cresta ci sono anche quelli legati alla riproduzione.Come per esempio alcune molecole legate alla mediazione dello stress da maternità e alla fertilità femminile e altre connesse al combattimento nei maschi.
Per quanto sia completa questa teoria però non esclude che in alcuni casi alla base di tratti comuni ci possano essere anche fattori genetici o biofisici. Nell’idea dei ricercatori lo studio potrà essere utilizzato per una revisione della letteratura sulla domesticazione. Inoltre la speranza dei ricercatori è che la review permetta ai colleghi di apprezzare l’enorme complessità che si cela dietro il fenomeno della domesticazione.
Riferimenti:
Shared reproductive disruption, not neural crest or tameness, explains the domestication syndrome. Ben Thomas Gleeson, Laura A. B. Wilson. The Royal Society Publishing. Published:22 March 2023. https://doi.org/10.1098/rspb.2022.2464
Mi sono laureato in Biotecnologie Industriali, e lavoro per una multinazionale che sviluppa test diagnostici per l’industria agroalimentare. Interessato alla comunicazione scientifica per passione, dopo qualche esperienza con un’associazione di divulgazione mi sono iscritto al Master in Giornalismo e comunicazione istituzionale della Scienza dell’Università di Ferrara.