Confini aperti – prima puntata

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Pikaia ha parlato qui del convegno Confini Aperti: sul rapporto esterno / interno in biologia (Roma, 11-12 febbraio 2011)L’intervento di Elena Gagliasso fa da cappello a entrambe le giornate, iniziando con un po’ di igiene concettuale: il ‘confine’ può essere inteso come limite che tiene separati due terrritori ma, poiché dove ne finisce uno ne inizia un altro, il confine, […]

Pikaia ha parlato qui del convegno Confini Aperti: sul rapporto esterno / interno in biologia (Roma, 11-12 febbraio 2011)

L’intervento di Elena Gagliasso fa da cappello a entrambe le giornate, iniziando con un po’ di igiene concettuale: il ‘confine’ può essere inteso come limite che tiene separati due terrritori ma, poiché dove ne finisce uno ne inizia un altro, il confine, più che barriera, è soglia che consente un passaggio tra due luoghi, siano essi ambiti categoriali o tra livelli di realtà. I passaggi di soglia fra i microlivelli e i macrolivelli dell’evoluzione sono possibili in virtù delle recenti aperture teoriche (e tecnologiche), come mostrano l’epigenomica e l’epigenetica. Le spiegazioni dello sviluppo, del cambiamento evolutivo e di quello ambientale si aprono nell’unificazione dell’EcoEvoDevo (Ecological Evolutionary Developmental Biology). Si tratta di nuovi paradigmi, che sostituiscono i precedenti? Sembrerebbero piuttosto «approcci nuovi al già noto», che rispondono alla dissoluzione di coppie di opposti (organismo/ambiente; innato/acquisito; interno/esterno). A metà del secolo scorso, negli anni di formazione della Nuova Sintesi – la quale coincide temporalmente, senza comunicare in modo significativo, con la fioritura dell’ecologia – c’era una spaccatura fra la spiegazione selezionista della linea filogenetica e quella economica della linea trofica. Ma questo gap già negli anni ’70 si stemperava in un pluralismo di relazioni ecosistemiche. L’ambiente, il cui rapporto con l’organismo era già ben presente prima di Darwin, con Darwin si duplica nell’accezione, tutt’altro che lineare, di ambiente come “selettore” e “prodotto”: le specie remote sono state attori e autori degli ambienti attuali, i cui effetti si riversano sui discendenti in chiave selettiva. La fusione di luogo e prodotto o di situazione e processo richiede, per parlare di ambiente, nuovi approcci che congiungano la catena di eventi filogenetici con quella degli eventi ecologici. La cesura tra le due si fa ancora più problematica con le ricerche sul “biomamicrobioma” – sorta di rinnovato milieu interieur – dal quale dipende lo sviluppo dell’organismo (l’ambiente embrionale e citoplasmatico dell’epigenetica). In assenza di un criterio oggettivo per separare l’interno dall’esterno, non si può tracciare una barriera nemmeno fra gli stessi corpi: è un individuo il mammifero femmina che porta in sé un estraneo per mesi, del quale conserverà le cellule per lungo tempo dopo il parto?

Interno ed esterno sono, in termini lamarckiani, strutture (organisation) e condizioni di vita (circostances). Questa lettura risulta troppo semplicistica dalla prospettiva che Giulio Barsanti ci offre su un Lamarck meno valorizzato (Histoire naturelle des animaux sans vertèbres, 1815): oltre a bisogni, abitudini e funzioni, l’interno è abitato da istinti, emozioni e orgasme, che insieme promuovono nuove azioni. Gli istinti non sono prodotti dell’abitudine ma del senso interno e si collocano, in una catena causale non lineare, dopo le sensazioni e prima delle abitudini, insieme alle azioni. Ma se gli istinti sono l’unica cosa che non si modifica (penchant à la conservation), come può avvenire la trasformazione delle funzioni e dunque dell’organizzazione? In altre parole, come si può soddisfare un nuovo bisogno (dovuto a mutate circostanze e a nuove sensazioni) con vecchie azioni e abituali modalità di esistenza? La scommessa della trasformazione puntata tutta sull’uso sembra già persa.

La sezione storica prosegue con l’indagine sull’«ipotesi provvisoria» di Darwin, quella della pangenesi (sui “modi di produzione” delle variazioni), fino agli anni ’60 del secolo scorso ritenuta una mera ipotesi ad hoc introdotta in The Variation of Animals and Plants under Domestication (1868) per difendersi dalle critiche di F. Jenkin e Lord Kelvin. Come spiega Barbara Continenza, il manoscritto del 27 maggio 1865 indirizzato ad Huxley (DAR51: C36-74) precede entrambe le critiche: in tale manoscritto Darwin tenta eroicamente di unire l’eredità con i processi di sviluppo, avanzando l’idea che la linea germinale non è inviolabile – rigidamente innata – ma soggetta alle variazioni indotte nello sviluppo dalle «condizioni di vita». Ma il lavoro d’indagine sui “modi di produzione” delle variazioni si può retrodatare ai Notebooks, dove Darwin contrappone, per le specie a generazione sessuale, la conservatività dell’accoppiamento al carattere innovativo della maturazione. Si tratta di una versione darwiniana delle “gemmule” di Bonnet o delle “molecole organiche” di Buffon? Bisogna essere cauti, come gli consigliò Huxley. L’ipotesi di Darwin, scevra di preformismo, è concepita più come l’estensione dell’eredità debole a tutto il regno vivente, che come una mossa strategica per ripararsi, nemmeno tanto bene, dagli attacchi. La Pangenesi è la teoria comprensiva di Darwin sulla riproduzione e la crescita, che egli, comunque, non integrò mai esplicitamente con la sua teoria della selezione naturale: dopotutto il modo in cui si formano le pietre – che siano tagliate su misura o caschino da un precipizio – non conta quanto la bravura dell’architetto nel realizzare l’edificio vivente che è l’organismo (C. Darwin, Variazione delle piante e degli animali allo stato domestico, cap. XXI, sez. “Riepilogo dell’elezione artificiale”).

(Continua…)

Irene Berra

Foto di Cristiano Corsini in licenza creative commons non commerciale.