Cara Gelimini, questa è l’università italiana

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Da quando la Gelmini ha iniziato la sua campagna di riforma dell’Università mi è spesso capitato di sentirmi dire dalle persone più diverse (dal barbiere al salumiere) che la riforma dell’università serve perché all’università tutti lavorano poco.. chi lo dice? La Gelmini e lei lo saprà è il ministro.. o no? Io ho sempre detto che con tutti i difetti […]


Da quando la Gelmini ha iniziato la sua campagna di riforma dell’Università mi è spesso capitato di sentirmi dire dalle persone più diverse (dal barbiere al salumiere) che la riforma dell’università serve perché all’università tutti lavorano poco.. chi lo dice? La Gelmini e lei lo saprà è il ministro.. o no?

Io ho sempre detto che con tutti i difetti che l’università ha (e che continua ad avere nonostante la riforma) la ricerca e la didattica in molti atenei italiani non è (o dovrei dire non era perchè i tagli ripetuti attuati non potranno che colpire la ricerca italiana) affatto male. A dirlo oggi non sono io, ma il rapporto Knowledge, networks and nations. Global scientific collaboration in the 21st  century della Royal Society di Londra. Su Scienza in Rete  trovate un ottimo riassunto di Pietro Greco da cui emerge ( e cito l’articolo di Greco) che “gli articoli scientifici firmati da scienziati degli Stati Uniti, per esempio, sono scesi dal 26% del periodo 1999-2003 al 21% nel periodo 2004-2008 del totale mondiale, con una perdita secca di 5 punti malgrado siano aumentati in termini assoluti (da 280.000 a 330.000). Allo stesso modo, gli articolo di scienziati giapponesi sono scesi dall’8% al 6% del totale mondiale. Ebbene, il peso relativo degli articoli “italiani” in questo periodo (esteso fino al 1996) è rimasto costante, intorno al 3,5% del totale mondiale. Il che significa, nota la Royal Society, che i ricercatori italiani nei dodici anni compresi tra il 1996 e il 2008 hanno aumentato del 32% il numero assoluto di articoli prodotti. Nessuno, tra i ricercatori dei paesi del G8, ha fatto meglio”. Tra l’altro questo risultato che ci colloca comunque tra i primi 10 Paesi del mondo per produttività scientifica.

Se poi guardiamo le citazioni troviamo che sono aumentate di un’abbondante metà, da 23 a 36 milioni ad indicare che gli articoli di autori italiani sono stati maggiormente citati a differenza di quanto è accaduto per gli Stati Uniti, tanto per fare un esempio di nazione che investe decisamente di più dell’Italia.

Il dato delle pubblicazioni, se rapportato ai finanziamenti alla ricerca, ci dicono inoltre che in Italia i ricercatori sono molto attenti a come spendono i finanziamenti tanto che producono molto in funzione a quanto ricevono.

Dall’analisi della Royal Society emerge che ben presto la Cina sorpasserà gli Stati Uniti per produttività scientifica perchè il numero di studi scientifici pubblicati nelle riviste internazionali da parte di ricercatori cinesi è cresciuto esponenzialmente, tanto da aver già superato l’apporto della Gran Bretagna (come sottolineato anche qui).  Come però sottolineato da Gennaro Carotenuto “l’ultimo anno del quinquennio, il 2008, è quello nel quale arriva Mariastella Gelmini. Per il prossimo lustro possiamo solo scendere”.

Purtroppo Carotenuto ha ragione, perchè c’è un limite di disponibilità economica oltre il quale non si può scendere per essere competitivi a livello di ricerca e molti gruppi italiani sono finiti in questi anni al di sotto di tale cifra. Perchè fanno progetti brutti? Anche, ma spesso perchè per finanziare molti progetti partendo da un budget magro, ai gruppi viene data solo una parte dei soldi necessari… e purtroppo questa è una scelta veramente miope. Vedremo cosa dirà la prossima valutazione.

Da Scimmia da parte paterna, il blog di Mauro Mandrioli