Che cos’è l’evo-devo?

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Perché il lungo collo della giraffa è di sole sette vertebre come quello di quasi tutti i vertebrati? E perché un centopiedi non può avere un numero pari di segmenti? Possiamo rispondere solo prendendo in considerazione sia la biologia evolutiva che quella dello sviluppo: evo-devo.

L’evo-devo è una delle discipline biologiche che negli ultimi trent’anni si sono imposte di più all’attenzione, sia dei ricercatori che del pubblico. Secondo alcuni si tratta di una vera e propria rivoluzione scientifica, altri più cautamente ritengono che l’evo-devo stia andando a riempire un “vuoto” tra due discipline che, anche per la mancanza di tecnologie adeguate, a lungo non si sono parlate molto fra loro. Uno dei pionieri del campo dell’evo-devo è lo zoologo italiano Alessandro Minelli (Università di Padova), al quale abbiamo chiesto di spiegarci qualcosa di questa complessa disciplina che sta modificando il pensiero biologico.

Come possiamo definire l’evo-devo?
Alla lettera, evo-devo è un’espressione abbreviata che sta per evolutionary developmental biology, cioè biologia evoluzionistica dello sviluppo. La parola entra nell’uso comune quando nel 1992 esce il libro di Brian Hall intitolato appunto Evolutionary developmental biology, che contiene molti dei concetti che entreranno nella pratica degli studiosi di evo-devo. In sostanza intorno a quel periodo ci siamo resi conto che alcuni importanti problemi della biologia, per esempio le modalità con cui nascono le novità evolutive (il fiore delle piante, l’ala degli uccelli, etc…) potevano essere affrontati solamente se si prendevano in considerazione sia la biologia evoluzionistica, sia la biologia dello sviluppo.
Queste discipline sono state per diverso tempo distanti a causa di molti fattori, ma per comprendere meglio le ragioni di questa lontananza dobbiamo fare un passo indietro e tornare alla prima metà del ’900. Tra gli anni ’30 e ’40 un gruppo di grandi scienziati diede forma alla Sintesi Moderna, a volte (un po’ impropriamente) chiamata neodarwinismo, cioè un programma di ricerca all’interno del quale, oltre all’idea di evoluzione per selezione naturale, coesistevano sia le discipline “classiche” della tradizione naturalistica (come paleontologia, sistematica, anatomia comparata, etc…), sia la genetica che aveva cominciato a svilupparsi dopo la riscoperta del lavoro di Mendel all’inizio del 900. La disciplina che più ha contribuito a questa sintesi è stata la genetica delle popolazioni: solo comprendendo come cambiano le popolazioni a livello genetico era possibile affrontare il problema del modificarsi delle forme biologiche nel tempo e tentare un aggancio con quello che i paleontologi vedono negli strati geologici. Sapendo che i geni controllano ciò su cui agisce l’evoluzione, cioè il fenotipo, a quel tempo lo sviluppo, che invece riguarda il modo con cui i geni formano l’organismo, non veniva considerato fondamentale. I motivi erano anche di natura tecnica: a quel tempo lo sviluppo era una sorta di “scatola nera” dentro la quale non potevamo vedere i geni in azione, perché mancavano i mezzi. Ora però le cose sono cambiate, possiamo aprire la scatola nera e capire non solo la sopravvivenza del più adatto (survival of the fittest), ma anche l’arrivo del più adatto (arrival of the fittest), cioè come è possibile in primo luogo costruire i fenotipi che, una volta realizzati, saranno poi sottoposti alla selezione.

A questo proposito, l’evo-devo ha introdotto il concetto di evolvibilità: può spiegarci di che si tratta?
Facciamo un esempio concreto. La giraffa ha un lungo collo, utile per brucare le foglie dai rami più alti, e che i maschi usano anche per combattere tra loro. Come si costruisce un collo così lungo durante lo sviluppo? In teoria, ci sono tre possibilità: si aumenta il numero delle vertebre, si allungano le vertebre, o entrambe le cose. In termini di biologia evoluzionistica non possiamo fare previsioni al riguardo, perché, come abbiamo già detto, la selezione naturale agisce sul fenotipo e nel nostro caso quello che conta è avere un collo lungo, non importa il numero o la lunghezza delle vertebre. Quando però andiamo a studiare lo scheletro della giraffa scopriamo che il collo è sostenuto da sette vertebre molto allungate. Non solo: quasi tutti i mammiferi, dalle balene ai lama, hanno sempre sette vertebre cervicali. Come mai? Perché l’evoluzione per selezione naturale di una certa caratteristica fenotipica non può prendere tutte le strade teoricamente possibili, ma solo quelle permesse dai meccanismi di sviluppo. L’evolvibilità (evolvability in inglese) è quindi definibile come il quadro delle possibili strade che possono essere imboccate dall’evoluzione a partire dalle condizioni attuali. Facciamo un paragone con il gioco degli scacchi. Ogni pezzo può muoversi solamente per andare in certe posizioni, i suoi spostamenti, cioè, sono soggetti a vincoli proprio come il processo di sviluppo che crea la forma di un organismo. A mano a mano che la partita va avanti, ai vincoli specifici ai quali è soggetto ogni pezzo si sommano quelli determinati dalla posizione degli altri pezzi sulla scacchiera, che nella nostra metafora rappresentano l’ambiente in cui gli organismi lottano per la sopravvivenza. Solo aprendo la “scatola nera” dello sviluppo possiamo guardare l’evoluzione nella sua totalità, e capire cosa può evolversi e perché.

Come fanno i biologi a studiare l’evo-devo?
Molti dei risultati più significativi sono arrivati dalla genetica dello sviluppo, cioè dallo studio dei geni che guidano il passaggio dallo zigote all’adulto e del loro meccanismo di azione. Trent’anni fa un gruppo di scienziati si mise a studiare sistematicamente alcuni bizzarri mutanti del moscerino della frutta (Drosophila melanogaster). In questo organismo modello a volte nascevano degli individui che, per esempio, avevano un paio di zampe al posto delle antenne, oppure un paio di ali in più. I ricercatori scoprirono che l’aspetto di questi mutanti era dovuto a mutazioni in singoli geni. Ma come poteva un solo gene contenere le informazioni necessarie per costruire qualcosa di complesso come l’ala di un insetto?
La risposta è che questi geni, chiamati geni Hox, controllano l’azione di altri geni, determinando, per esempio, quali appendici si formeranno in un determinato segmento dell’animale. In seguito si è scoperto che i geni Hox, in tutto una decina o poco più, sono sostanzialmente gli stessi in tutti gli animali, e nell’evoluzione si è conservata anche la loro funzione principale, cioè identificare nell’embrione la posizione in cui altri geni guideranno lo sviluppo delle diverse strutture. Tutto questo ci dice che esiste una sintassi del corpo condivisa, uno schema comune a tutti gli animali.
Anche dalla morfologia comparata e dalla sistematica arrivano contributi importanti nel campo dell’evo-devo. Per esempio, è un dato di fatto che tutti i centopiedi hanno un numero dispari di segmenti del corpo e all’interno dell’ordine degli scolopendromorfi questo numero può essere 21 o 23, ma nel 1998 è stata scoperta una specie dove il numero di segmenti era 39 o 43. Abbiamo chiamato questa specie Scolopendropsis duplicata e la cosa più interessante dal punto di vista dell’evo-devo è che nell’evoluzione dei centopiedi sembra sia possibile raddoppiare il numero di segmenti (o quasi, perché il numero totale viene comunque mantenuto dispari), ma non aumentare la lunghezza del corpo aggiungendo un segmento alla volta. Come nel caso delle vertebre della giraffa, deve esistere un vincolo dello sviluppo che non possiamo ignorare, se vogliamo capire l’evoluzione di questi animali.

Se esiste addirittura una sintassi del corpo condivisa tra tutti gli animali, dovremmo cambiare anche la nostra idea di omologia?
La questione è ancora controversa. Dai tempi di Richard Owen (1843), in biologia si dice che due organi sono omologhi se condividono la stessa struttura di base, indipendentemente dalla funzione che ricoprono. Per esempio, sono classicamente considerati omologhi l’arto superiore dell’uomo e l’ala di un pipistrello. Ma se prendessimo in esame il mutante di Drosophilacon le zampe al posto delle antenne e ci chiedessimo a che cosa sono omologhe quelle zampe, che cosa risponderemmo? Dal punto di vista della posizione, dovremmo rispondere che le zampe sulla testa del mutante sono omologhe alle antenne di una mosca normale, mentre dal punto di vista della struttura sono omologhe a una qualsiasi altra zampa di Drosophila. Questo è un esempio estremo per far capire che la relazione di omologia non può essere trattata in termini di “tutto-o-niente”, ma come il risultato di un complesso sistema combinatorio, le cui componenti è necessario specificare di volta in volta.

L’evo-devo dovrebbe essere incluso in una ipotetica Sintesi estesa, o lo possiamo considerare all’interno della Sintesi Moderna?
L’evo-devo non è in contrasto con il cosiddetto neodarwinismo, però in molti si chiedono da tempo se non sia ormai venuta l’ora di aggiornare la Sintesi Moderna, in particolare proprio per includervi quello che avviene nella “scatola nera” dello sviluppo, che era stata lasciata fuori nel secolo scorso. La mia posizione è che tutto dipende da quanto rigidamente vogliamo intendere il classico programma di ricerca della Sintesi.
Se leggiamo quello che scriveva Julian Huxley in Evolution: the modern synthesis (1942), troviamo in realtà che i temi della biologia dello sviluppo applicata all’evoluzione erano già presenti. Lo stesso accadeva negli scritti di un altro dei padri della Sintesi, J.B.S. Haldane. Huxley e Haldane, infatti, furono entrambi influenzati dal lavoro dell’embriologo britannico Gavin de Beer. Questo significa che al momento della definizione della Sintesi, nonostante le conoscenze molto limitate, l’importanza dello sviluppo era ben nota. Non c’è dubbio, però, che la versione “scolastica” della teoria dell’evoluzione, che continua a essere insegnata sotto il nome di Sintesi Moderna, non deve più essere presentata come il modello completo e definitivo dei processi evolutivi.
Tutti i biologi concordano sull’importanza di discipline e fenomeni che, come l’evo-devo, non poterono essere inclusi nella Sintesi Moderna; ma mentre alcuni ne propongono una ufficiale estensione, altri ritengono che di fatto questi siano già entrati a far parte della moderna biologia evolutiva. 


Stefano Dalla Casa, da Zanichelli Aula di Scienze


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