Come alcuni pesci si sono adattati all’inquinamento ambientale
Una specie di pesce che vive negli estuari statunitensi ha raggiunto straordinari livelli di tolleranza a inquinanti chimici grazie a una variazione genetica che coinvolge la trasmissione di specifici segnali intracellulari
“Mummichog” è il nome con cui gli americani identificano una particolare specie di pesce non migratore, appartenente alla specie Fundulus heteroclitus, che vive negli estuari e nelle paludi salmastre presso la costa atlantica degli Stati Uniti. Appartiene a un gruppo di pesci chiamati killifish atlantico e noti da decenni per la loro resistenza alle fluttuazioni di temperatura, salinità e concentrazione di ossigeno nell’acqua (alcuni di loro riescono a sopravvivere fuori dall’acqua per alcune settimane). Si tratta di pesci di valore commerciale nullo, ma importanti per il loro ruolo nella catena alimentare degli ecosistemi in cui vivono. Questa specie mostra un’eccezionale capacità di adattamento a livelli di inquinamento che solitamente sono tossici per le altre specie ittiche, e che sono dovuti a sostanze come diossine, metalli pesanti e idrocarburi; si stima che sia fino a 8000 volte più resistenti della maggior parte delle altre specie di pesci.
Uno studio guidato dall’Università della California Davis e pubblicato sulla rivista Science ha preso in esame e sequenziato il genoma di circa 400 mummichog appartenenti a otto popolazioni geograficamente separate, quattro delle quali mostrano tolleranza alle sostanze chimiche menzionate, mentre le altre quattro ne subiscono gli effetti tossici. È stato rilevato che in tutte le popolazioni resistenti sono presenti delle modifiche in un insieme di geni associati a una particolare via di trasduzione del segnale denominata AHR (ricettore degli idrocarburi aromatici).
Si pensa che a questa via di trasduzione si leghino alcuni idrocarburi aromatici (composti che contengono anelli di carbonio, spesso trovati nel catrame e nei residui della combustione di carburanti), dando inizio a una serie di segnali aberranti che a sua volta genera un sovraccarico negli enzimi che dovrebbero metabolizzarli. L’esito, nelle popolazioni che non hanno sviluppato la tolleranza, sono una serie di malformazioni nello sviluppo embrionale, con un aumento della mortalità degli embrioni e delle larve oppure, negli adulti, fenomeni di tossicità. La via di trasduzione del segnale AHR appare silenziata nei pesci resistenti, e la selezione naturale sembra aver agito sugli stessi insiemi di geni, anche se con differenze minime, in tutte e quattro le popolazioni studiate.
Le mutazioni sembrano dunque essere tutte correlate tra loro anche se le popolazioni sono evolute in modo indipendente, salvo qualche differenza isolata. Questo suggerisce che esistesse una predisposizione genetica comune a tutte le popolazioni già prima degli anni ’50 – ’60, quando è cominciato l’inquinamento degli estuari, e che le differenze siano dovute alla varietà di inquinanti a cui i pesci sono stati esposti negli estuari.
Le popolazioni tolleranti sono dunque derivate recentemente e indipendentemente dallo stesso pool genetico; la similitudine della loro evoluzione sembra quindi indicare che esistano solo poche soluzioni evolutive per adattarsi all’inquinamento, e che siano tutte limitate a modifiche in questa via di trasduzione del segnale. Tuttavia sono necessari ulteriori indagini, in quanto è possibile che la tossicità si eserciti anche attraverso altre vie di trasduzione e che quindi siano necessari anche altri adattamenti; il genotipo adattivo dei mummichog si presta dunque a essere molto più complesso rispetto ai modelli di laboratorio.
Va anche notato che la via di traduzione AHR è coinvolta anche in altri processi funzionali, che riguardano la segnalazione della carenza di ossigeno, la regolazione del ciclo cellulare e la risposta immunitaria delle cellule. Gli effetti potenzialmente negativi della desensibilizzazione del percorso AHR sono probabilmente compensati da altri adattamenti, che contribuiscono alla complessità del genotipo.
Lo studio suggerisce quindi che l’evoluzione possa fornire agli esseri viventi i mezzi per sopravvivere all’inquinamento; conoscendo i geni responsabili della tolleranza o sensibilità a determinate sostanze chimiche si può comprendere come altri animali (tra cui gli esseri umani) reagiscono all’esposizione agli inquinanti tossici, e si può spiegare come le differenze genetiche tra gli umani contribuiscano alla diversa risposta dell’organismo ai contaminanti ambientali.
La situazione del mummichog non va interpretata in modo da giustificare in alcun modo l’inquinamento umano, dato che si tratta di pesci che possono contare su popolazioni molto numerose e su una variabilità genetica più alta rispetto alla maggior parte dei vertebrati. Queste caratteristiche permettono alla specie di evolvere più rapidamente e le conferiscono un vantaggio per la sopravvivenza in condizioni estreme, ma non tutte le specie dispongono di una variabilità genetica sufficientemente alta da adattarsi in tempo all’inquinamento ambientale.
Fonte:
Reid et al. The genomic landscape of rapid repeated evolutionary adaptation to toxic pollution in wild fish. Science (2016), doi:10.1126/science.aah4993
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