Deforestazione e sviluppo economico: la teoria della transizione forestale alla prova dei fatti

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Un recente studio pubblicato su Environmental Research Letters ha dimostrato l’attualità e l’esattezza della “Teoria della transizione forestale” (FTT), un modello teorico che mette in relazione la variazione di copertura forestale e lo sviluppo umano ed economico dei singoli Paesi

Agli inizi degli anni ‘90 il geografo Alexander Mather elabora la teoria della transizione forestale (forest transition theory), secondo la quale la copertura forestale e boschiva varia in funzione del livello di sviluppo di un paese, in particolare del suo PIL. Secondo il geografo inglese questa variazione segue una traiettoria a “U”: durante la fase di sviluppo economico i Paesi attuano una deforestazione più o meno massiccia; a questa fase ne segue una intermedia, caratterizzata da una scarsità di foreste che porta con sé prezzi di legname elevati e la richiesta di servizi ecosistemici; è solo quando la crescita si stabilizza e la ricchezza pro-capite aumenta che si assiste a un progressivo abbandono dei terreni agricoli e al restauro del suolo forestale.

Forest transition theory

Immagine: Arild Angelsen via Wikimedia Commons


La teoria alla prova dei fatti
Il gruppo di ricerca coordinato da Ronald C. Estoque, del Forestry and Forest Products Research Institute (FFPI) in Giappone, ha voluto verificare la teoria di Mather. Il risultato è un’immensa ricerca, da poco pubblicata su Environmental Research Letters, che ha incrociato tutti i dati disponibili sulla copertura forestale globale dal 1960 a oggi con i dati sullo sviluppo e la crescita di 197 Paesi raggruppati per regioni economiche (stesso livello di reddito e sviluppo).

Dallo studio emerge che la teoria di Mather è corretta, anche se tra il guadagno di copertura forestale e i paesi ad alto reddito c’è una correlazione più stretta di quanto non vi sia tra la perdita di foresta e i paesi a basso reddito. Al di là dei singoli episodi e delle differenze a livello regionale, affermano gli autori, è possibile individuare uno schema ricorsivo:
“i Paesi a basso reddito e i Paesi con livelli inferiori di sviluppo presentano proporzioni più elevate di perdita di foreste, mentre i Paesi a reddito più elevato e i Paesi con livelli superiori di sviluppo umano presentano proporzioni più elevate di guadagno di foreste“.
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Immagine: dalla pubblicazione

Come previsto, i Paesi che hanno riforestato di più sono quelli situati nel Nord del mondo, statisticamente più ricchi e sviluppati, mentre quelli che hanno deforestato di più sono situati a Sud (Sud America, Africa e Sud-Est asiatico). 

Questo dimostra che, all’interno del paradigma socio-economico esistente, sia la minaccia sia la tutela dell’ambiente dipendono strettamente dalla ricchezza e dal grado di sviluppo dei Paesi e delle regioni del mondo. Anche i fatti più recenti, avvenuti dopo il 2019, sembrano corroborare questa visione. Nei primi due mesi del 2022 la deforestazione della foresta amazzonica ha subito una spaventosa accelerazione rispetto allo stesso periodo del 2021 per opera del governo Bolsonaro, denunciato più volte alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. Sempre nella prima metà del 2022 il presidente del Congo Félix Tshisekedi apriva le procedure per mettere all’asta ampie zone della foresta pluviale del Bacino del fiume Congo per estrazioni di petrolio e di gas (asta aperta il 28 luglio 2022). In entrambi i casi la causa principale è la crescita economica e il conseguente aumento del PIL e della ricchezza pro-capite.

La foresta pluviale del Congo è seconda per ampiezza e importanza solo alla foresta amazzonica. Insieme, le foreste pluviali forniscono servizi ecosistemici insostituibili. Uno su tutti, l’assorbimento e lo stoccaggio dei gas serra, decisivo per frenare, o per lo meno tenere a bada, il cambiamento climatico. Un servizio analogo ma molto più incisivo è fornito solo dagli oceani, anch’essi messi in ginocchio dalla pesca intensiva e dall’inquinamento delle acque. 

I numeri della transizione
In totale, tra il 1960 e il 2019, si è registrata una perdita globale di suolo forestale di 81,7 milioni di ettari (differenza tra la perdita e il guadagno netto di foreste nel mondo). A livello globale, dichiarano i ricercatori, “la tendenza del cambiamento forestale è stata una perdita netta di foreste in tutti i decenni, ad eccezione del periodo 1960-1970, quando il guadagno lordo di foreste ha superato la perdita lorda di foreste”.

Un altro dato interessante è che “ tra il 1972 e il 2009, i Paesi a basso reddito hanno raccolto più di 170 Mha di prodotti forestali per l’esportazione, mentre i Paesi a più alto reddito sono stati gli unici importatori netti”.
Questo significa che i paesi ad alto reddito fanno affidamento sulla deforestazione di altri paesi per soddisfare la richiesta interna di legname, svolgendo così un ruolo attivo nella deforestazione dei paesi in via di sviluppo.

Il parere di un esperto
Secondo Giorgio Vacchiano, massimo esperto in Italia di ecosistemi forestali, che abbiamo intervistato per l’occasione, la presenza di una correlazione meno forte tra deforestazione e povertà è il contributo decisivo di questa ricerca, soprattutto se vogliamo guardare al futuro. Secondo il ricercatore in gestione e pianificazione forestale presso l’Università Statale di Milano, questa asimmetria indica che ci sono paesi con un basso livello di sviluppo nel quale si può fare molto in termini di conservazione. Due esempi lampanti sono quelli della Malesia e dell’Indonesia, che hanno ridotto fortemente la deforestazione adottando rigide procedure di controllo sulle piantagioni di palma da olio. Un altro esempio è quello del Gabon, che è riuscito a mettere in atto piani di conservazione estremamente efficienti proprio in quelle regioni dell’Africa dove si fa sentire con forza la necessità di uno sviluppo economico. Net-zero economy
Per ottenere una vera inversione di tendenza, prosegue Vacchiano, la politica interna dei singoli Paesi deve essere affiancata da una forma di cooperazione internazionale, che può intervenire con finanziamenti da investire in settori che non prevedano deforestazione o impatti simili. Questo vale specialmente per l’agricoltura, che costituisce attualmente il rischio maggiore per le foreste globali.  Al secondo posto per impatto c’è la produzione di legname. Attualmente il rapporto tra la domanda e il consumo è sostenibile, ma la vera sfida è il futuro. Facendo riferimento a un recente report pubblicato su Material Economics, Vacchiano suggerisce di pensare nell’ottica di una “Net-Zero Economy”, almeno in questa fase di transizione. A differenza del paradigma a zero emissioni di carbonio (carbon neutrality), che rimane un obiettivo a lungo termine, la net-zero economy mette l’accento sul valore delle emissioni indirette e sul controllo e l’efficientamento della catena che lega il fornitore e il consumatore finale, dalla riduzione dei consumi al riciclo della biomassa.  Non va tutto male
In conclusione, il dottor Vacchiano suggerisce che dobbiamo essere ottimisti, anche se tutto dipende da quali saranno i prossimi passi. L’Europa, dopo la sciagurata scelta di delocalizzare gli impatti della produzione di legname, giocando un ruolo cruciale nella deforestazione in altri Paesi, sta mettendo a punto una direttiva sull’importazione che obbligherebbe chiunque immetta legname a indicare che non derivi da opere di deforestazione, insistendo dunque sul riciclo e le tecnologie utili a renderlo efficente. Se questa operazione andasse a buon fine saremmo tra i primi paesi al mondo ad applicare una normativa internazionale di questo tipo. Un enorme passo in avanti, considerando che l’Italia è già tra i primi dieci paesi al mondo per riacquisto di suolo forestale e per riciclo (ricicliamo all’anno tra i 2 ei  3 milioni di tonnellate su un totale di 40 milioni consumati).

Riferimenti: Estoque, R. C., Dasgupta, R., Winkler, K., Avitabile, V., Johnson, B. A., Myint, S. W., …Lasco, R. D. (2022). Spatiotemporal pattern of global forest change over the past 60 years and the forest transition theory. Environmental Research Letters, 17(8), 084022. doi: 10.1088/1748-9326/ac7df5

Immagine in apertura: Kate Evans/Cifor via Flickr
(CC BY-NC-ND 2.0), scattata in Brasile