Digital Diorama

diorama

Al Museo di Storia Naturale di Milano è stato presentato il progetto “DigitalDiorama. Diorami digitali per la LIM (Lavagna Interattiva Multimediale)”. Si tratta di un software interattivo che sostiene percorsi didattici di tipo naturalistico

Al Museo di Storia Naturale di Milano è stato presentato il progetto DigitalDiorama. Diorami digitali per la LIM (Lavagna Interattiva Multimediale)”. Si tratta di un software interattivo che sostiene percorsi didattici di tipo naturalistico.

Il punto di partenza della presentazione, più volte ribadito, è che il progetto propone un modo di conoscere la natura che ripudia la vecchia, noiosa e inefficace pratica dei libri di testo con le loro “classificazioni”. Avendo praticato con il Movimento di Cooperazione Educativa già negli anni ’70 del secolo scorso il “rifiuto del libro di testo” a favore di una pedagogia attiva, posso essere d’accordo a livello “ideologico”, ma non lo sono sul riferimento alla classificazione, non solo perché ha e continuerà ad avere un ruolo basilare nella scienza naturalistica, non solo perché il nostro pensiero funziona sulla base di classificazioni (ad esempio si veda: Hofstadter D. – Sander E. [2013], Superfici ed essenze. L’analogia come cuore pulsante del pensiero, Codice Torino 2015), ma anche sulla base di una osservazione personale: lavorando con bambini delle elementari ho spesso notato (con sorpresa) che il tema cognitivo che noi chiamiamo “classificazione” desta un grande interesse di tipo epistemologico nei bambini; l’ho notato in situazioni cui la proposta era che loro trovassero, per tentativi ed errori, dei criteri di raggruppamento; questo dimostra che l’esigenza classificatoria accomuna scienziati e bambini, mentre il contesto (scoperta-costruzione di rappresentazioni vs trasmissione di rappresentazioni) è fondamentale per l’apprendimento.

Nell’ambito di una relazione sulle procedure di valutazione del progetto è stato riferito dell’uso dell’eye tracking (gli occhiali con telecamere incorporate che permettono di ricostruire come si muove e su che cosa si sofferma lo sguardo di chi osserva un oggetto) e di come sia  è stato usato per apportare modifiche al dispositivo. Ho chiesto in che direzione sono state apportate le modifiche perché naturalmente, dal punto di vista pedagogico, un conto è adeguarsi alle abitudini percettive dell’utente e un conto è cercare di modificarle secondo un’intenzionalità didattica. La risposta è che ci si riferiva a modifiche della grafica (collocazione e denominazione dei “pulsanti” ecc.).

Il senso della mia domanda ha a che fare con l’oggetto che compare nel titolo stesso del progetto: il diorama, che non è solo un oggetto materiale, ma un “dispositivo” comunicativo e soprattutto educativo. Nei musei il diorama è la base materiale di un “gioco linguistico” (per scomodare Witgwstein), cioè di un tipo di interazione socialmente riconosciuto, che le guide (parlo di persone) praticano con i visitatori, in particolare con i gruppi scolastici.

In questo contesto, quello per cui il diorama è stato inventato e in cui acquista il proprio senso, una delle dinamiche che si ripetono è proprio l’intervento delle guide che fanno apparire all’utente ciò che egli “non vede” (oggetti piccoli, dettagli, relazioni tra elementi…) per via dei “pregiudizi percettivi” del suo sistema visivo (cervello). Ciò che l’utente in genere non vede, e che scopre grazie alle guide (o alle didascalie), è ciò che i progettisti del diorama intendono proporre come oggetto di conoscenza scientifica.

Nell’ambito della presentazione del progetto i bambini di una classe elementare hanno testimoniato la loro esperienza di utilizzo del software, dimostrando padronanza nell’uso del dispositivo e competenza nella comunicazione che riguarda percorsi cognitivi che hanno sviluppato.

Il loro insegnante ha insistito sulla flessibilità: i bambini hanno costruito i loro percorsi esplorando liberamente una rete, scegliendo tra le alternative che il software offre, a partire da loro curiosità e interessi. Quello che l’insegnante non dice per understatement, ma che appare evidente a chi abbia esperienza di pratica educativa scolastica, è che, trattandosi di percorsi fatti in gruppo (la LIM impone una interazione limitata a gruppi di non più di 4-5 bambini, che va ovviamente organizzata nella classe), deve essere stato cruciale un lavoro di negoziazione e di cooperazione che l’insegnante deve saper favorire, se non guidare. 

Quello che i bambini e il loro maestro hanno mostrato è come tra il perdersi nella rete digitale e l’usarla per conoscere ci siano di mezzo la scuola come contesto e la formazione dell’insegnante; con tutta la differenza che c’è tra “insegnare” (nel senso di “fare lezione”) da una parte e costruire e gestire le condizioni in cui i bambini possano sviluppare i loro percorsi di apprendimento dall’altra. Come dire che anche il software migliore (per chi lo progetta) non migliora la costruzione di conoscenza scientifica se non c’è chi ha le competenze per creare le condizioni ambientali (epistemologiche, educative, sociali) adeguate per un suo consapevole utilizzo educativo, come accade del resto per ogni strumento.

Nella rete digitale sono ampiamente disponibili materiali di tipo naturalistico, compresi quelli organizzati bene da soggetti qualificati (Pikaia, siti di musei o di associazioni professionali ecc.); il problema è se e come gli insegnanti possano scegliere in questa sovrabbondanza di materiali e gestirli con le classi se non hanno una adeguata formazione professionale, che non è ovviamente riducibile a un addestramento all’uso di un software.

Nello specifico del progetto DigitalDiorama c’è un problema che viene reso evidente dalla scelta stessa del titolo, che vuole dare centralità a un oggetto: perché “diorama”, dal momento che nel software non si ha mai a che fare con diorami, ma con fotografie e filmati, a partire da fotografie di diorami? I diorami sono un dispositivo la cui specificità e il cui senso didattico stanno nel grado di vicinanza alla realtà. Si va al museo perché ci sono gli oggetti “veri”, e questo avveniva già prima che fossero inventati i diorami. Non sarò così ingenuo dal sostenere che i diorami sono la realtà, mentre le foto sono una rappresentazione, ma tra le rappresentazioni possibili i diorami sono molto più vicini alla realtà di quanto lo siano foto e filmati. In particolare questa vicinanza si gioca su due elementi: le dimensioni e la materialità.

Nella presentazione si è accennato al fatto che i bambini hanno manifestato problemi in relazione alle dimensioni degli animali e, riferendosi all’alce presente in una foto di diorama, è stato usato il termine “monumentale”: è l’effetto di sorpresa che manifestano tutti coloro, bambini e adulti, che non abbiamo mai avuto contatti con un vero alce. I bambini dalla nascita hanno a che fare con modellini in scala ridotta e, mentre per le automobili hanno la possibilità di confrontale con quelle reali, ciò non accade con moltissimi degli elementi naturali che vedono riprodotti. Ed è un classico dell’inizio delle visite guidate che i bambini chiedano “ma è un animale vero?”. Oggi le scienze cognitive cominciano a farci comprendere perché la materialità ha un ruolo così importante nella percezione (ad esempio si veda: Gallese V. – Guerra M., Lo  schermo empatico. Cinema e neuroscienze, Cortina Milano 2015). Questo fa la differenza (che è cognitiva e insieme affettiva perché le due dimensioni non possono essere scisse se non, sciaguratamente, nei nostri discorsi) tra diorama e foto di un diorama.

Attorno a uno strumento nuovo è fondamentale la consapevolezza (ecco perché è essenziale la formazione degli insegnanti) per sapere cosa offre di diverso e che cosa si porta dietro come effetti culturali. Già quando il digitale fu introdotto come nuova forma di scrittura gli educatori più accorti non si posero il problema di scegliere tra la vecchia e la nuova scrittura, ma si interrogarono su come la dimensione digitale interagisce con il sistema della scrittura, e lo fecero per utilizzarne gli elementi funzionali e correggere gli aspetti disfunzionali. In questo caso si tratta di capire come il digitale interagisce con il sistema della conoscenza scientifica. La domanda dunque è non solo che cosa si guadagna, ma anche che cosa si perde, se si sostituisce un software che permette di lavorare in classe su riproduzioni fotografiche di diorami rispetto ad andare al museo per vedere dal vivo diorami di ambienti naturali ricostruiti avendo come obiettivo la massima vicinanza possibile alla realtà (dimensioni e materiali prima di tutto).

In conclusione io non ho strumenti per valutare l’impatto effettivo del progetto sulla conoscenza scientifica nel contesto scolastico,  però mi pongo come cittadino il problema se sia una scelta positiva investire denaro pubblico su un progetto di digitalizzazione di ciò che c’è e si fa in un museo naturalistico, invece che (il contesto malthusiano della crisi economica impone competizione e selezione) sul potenziamento di ciò che i musei sono dal punto di vista della loro specificità (oggetti reali a disposizione del pubblico e comunicazione costruita sulla presenza degli oggetti).

Per tutta la giornata della presentazione di DigitalDiorama al Museo di Storia Naturale di Milano non è stato mai detto che cos’è un diorama, né tanto meno si è andati a incontrarne uno qualche metro più in là. Invece la parola “diorama” è stata usata decine di volte riferendola a immagini fotografiche dei diorami. Senza scomodare Orwell, ma forse solo Moretti, se “le parole sono importanti” lo sono sicuramente ed essenzialmente nella scienza, dove il nesso tra segno verbale e referente sono strettissimi e univoci. Dunque la parola, e quindi il concetto, di diorama si sposta da quel dispositivo materiale e “realistico” che viene usato al museo a una sua rappresentazione fotografica (bidimensionale, in scala ridotta e senza materialità). Se ne ha una riprova se si considera che nell’utilizzo di DigitalDiorama nulla cambierebbe, se non nella direzione di una maggiore vicinanza alla realtà, se le immagini che vengono proposte alle classi non fossero di diorami ma di realtà naturali, scelte tra i milioni di immagini, anche bellissime e scientificamente significative, reperibili dal web.

È un messaggio dagli effetti culturali importanti: significa l’insignificanza del lavoro di chi progetta e gestisce il dispositivo chiamato “diorama”, decidendo quali idee scientifiche è destinato a proporre, quali elementi deve contenere e in quale relazione per essere funzionale a quell’idea, in quale modo con quali materiali deve essere realizzato, attraverso competenze di alto artigianato, per essere il più possibile vicino alla realtà naturale e al progetto di comunicazione scientifica, quale gioco di comunicazione interattiva deve essere messo in moto per portare l’attenzione sugli elementi materiali che significano l’idea. In poche parole il museo, o almeno quella parte del museo aperta e destinata al pubblico, non serve più. Potrebbe essere la fine della storia.