Evoluti per credere?

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L’ultimo fascicolo della rivista Nature contiene un interessante saggio di Pascal Boyer sul rapporto tra evoluzione e religione. In questo caso non si parla però di conflitto tra il modo di percepire il mondo proprio della scienza e della religione, ma dell’origine della religione: possiamo considerare la religione un prodotto della nostra cultura tanto quanto la musica, la politica e […]

L’ultimo fascicolo della rivista Nature contiene un interessante saggio di Pascal Boyer sul rapporto tra evoluzione e religione. In questo caso non si parla però di conflitto tra il modo di percepire il mondo proprio della scienza e della religione, ma dell’origine della religione: possiamo considerare la religione un prodotto della nostra cultura tanto quanto la musica, la politica e le relazioni famigliari?

La risposta di Boyer è affermativa: la religione è un prodotto del nostro cervello nel senso che il modo in cui il nostro cervello funziona sembrerebbe favorire la ricerca di progetti e finalità nella natura e quindi facilitare il sorgere ed il successivo diffondersi di numerose religioni. Si inserisce quindi in questo nuovo scenario evolutivo la ricerca dell’origine delle religioni ed in particolare della religiosità, che diventa quindi un oggetto di studio delle neuroscienze, delle scienze cognitive e dell’antropologia culturale. La religiosità (e non quindi le religioni) potrebbe essere il frutto dell’evoluzione poiché sebbene le religioni differiscano l’una dall’altra, in comune hanno il fatto che chi crede è disposto ad accettare la presenza nella propria vita di divinità prive di corpo (e quindi non tangibili né visibili) e con caratteristiche assolutamente contro-intuitive quali l’onnipotenza, la capacità di creare e distruggere, etc…

In modo analogo il nostro cervello sembra accettare comportamenti rituali che, sebbene privi di un valore pratico reale e verificabile, possono essere associati ad una sensazione di appagamento, di protezione fisica e consolazione morale. Questo comportamento potrebbe essere il frutto di quegli stessi network cerebrali alla base dell’auto-conservazione ovvero il prodotto di meccanismi che servono per tenerci lontani dal pericolo e che dovrebbero permetterci di vivere in modo più sereno.

L’uomo è inoltre un animale dotato di una incredibile capacità di coalizione tanto che uomini e donne non imparentati possono organizzarsi in contesti sociali con relazioni stabili in cui ciascuno si sente maggiormente protetto. Questa sorta di psicologia della coalizione potrebbe essere un’altra componente chiave nell’origine della religiosità, poiché la religione può aggiungere elementi comuni tra i membri di un gruppo rafforzandone quindi il senso di unità.

La religiosità quindi non sarebbe il frutto di una specifica regione del nostro cervello (ed è quindi è inutile cercare il gene per la religiosità!!!) ma sarebbe un impulso che deriva dalla somma di più tendenze innate presenti nel nostro cervello. Non è quindi un caso che le religioni più moderne “si presentino come un pacchetto che integra tutte queste componenti diverse (ritualità, moralità, identità sociale) in una unica dottrina. Queste componenti rimangono separate nei processi cognitivi umani. Il risultato è quindi che la nostra mente non ha un singolo network che porta alla religiosità, ma una miriade di network distinti che contribuiscono a rendere l’accettazione delle religioni un processo abbastanza naturale per molte persone”.

A sostegno di questa ipotesi si può facilmente osservare come al di là degli aspetti peculiari di ogni religione, esistono assunzioni tacite comuni a tutte le religioni e sarebbero queste componenti ad agire come terreno fertile per la crescita delle religioni. Il tentativo di spiegare l’origine delle religioni in chiave evolutiva (grazie alle neuroscienze ed alle scienze cognitive) non deve però essere visto come un tentativo “di sminuire le religioni”, ma semplicemente come il desiderio di capirne l’origine.

Se tutto ciò è vero, dobbiamo quindi considerare il “non credere come una sorta di tentativo di controllare qualche cosa che va contro le nostre disposizioni cognitive innate (naturali?) rendendo questa visione del mondo l’ideologia (..) più difficile da diffondere”.

Mauro Mandrioli