Forme diverse con geni simili
Sino ad alcuni anni or sono molti genetisti avevano una visione assolutamente genecentrica e ponevano enorme attenzione alle sequenze nucleotidiche che costituivano le porzioni codificanti dei geni. Tali analisi tuttavia mostravano, in modo spesso sorprendente, che i livelli di differenziazione a livello molecolare non concordavano con quelli osservati a livello fenotipico ed in particolare spesso le sequenze codificanti risultavano essere […]
Sino ad alcuni anni or sono molti genetisti avevano una visione assolutamente genecentrica e ponevano enorme attenzione alle sequenze nucleotidiche che costituivano le porzioni codificanti dei geni. Tali analisi tuttavia mostravano, in modo spesso sorprendente, che i livelli di differenziazione a livello molecolare non concordavano con quelli osservati a livello fenotipico ed in particolare spesso le sequenze codificanti risultavano essere molto simili in specie ben distinguibili a livello morfologico. A cosa si doveva quindi l’origine delle differenze fenotipiche?
Negli ultimi anni ha preso progressivamente forza l’idea che alla base della diversificazione di specie filogeneticamente correlate non vi fossero mutazioni a carico delle sequenze geniche codificanti, ma differenze nel pattern di espressione di alcuni geni. Questo implicherebbe che mutazioni a carico delle regioni che definiscono quando, quanto e dove attivare un gene (definite regioni promotrici) sarebbero implicate nell’origine di nuove specie più di quanto facciano le mutazioni a carico delle sequenze codificanti.
Questa ipotesi è stata verificata dal gruppo di ricerca di Michael Snyder sui lieviti del genere Saccharomyces ed i dati ottenuti sono stati pubblicati sul numero del 10 Agosto della rivista Science. In particolare, Snyder e colleghi hanno mostrato come la distinzione dei lieviti nelle specie S. cerevisiae, S. mikatae e S. bayanus sia dovuta al fatto che alcuni geni vengono attivati in modo differente nelle tre specie a seguito della presenza di differenze nelle regioni promotrici.
Questo significa, quindi, che mutazioni a carico delle regioni promotrici di un gene possono avere effetti di gran lunga superiori rispetto a mutazioni della stessa entità, che avvengono a carico delle regioni codificanti.
Se esteso ad altri modelli si può quindi ipotizzare che la presenza di porzioni codificanti simili non sia indice di una similarità anche nella forma degli organismi che tali geni portano. Applicando questo modello alla genetica umana si potrebbe, quindi, ipotizzare che le basi molecolari all’origine delle differenze tra uomo e scimpanzè non siano da ricercare nelle porzioni codificanti (che risultano infatti simili al 98-99%), ma a livello delle regioni promotrici. Questa ipotesi è supportata da dati pubblicati in precedenza e mostranti come uomo e scimpanzè, pur avendo geni molto simili, presentano in diversi organi (ed in particolare nel cervello) grandi differenze nel numero di geni espressi e nel pattern di espressione di ciascuno di essi.
Mauro Mandrioli
Anthony R. Borneman, Tara A. Gianoulis, Zhengdong D. Zhang, Haiyuan Yu, Joel Rozowsky, Michael R. Seringhaus, Lu Yong Wang, Mark Gerstein, Michael Snyder. Divergence of transcription factor binding sites across related yeast species. Science 317: 815-819. 2007
Fonte immagine: GenOuest bioinformatics platform
Biologo e genetista all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove studia le basi molecolari dell’evoluzione biologica con particolare riferimento alla citogenetica e alla simbiosi. Insegna genetica generale, molecolare e microbica nei corsi di laurea in biologia e biotecnologie. Ha pubblicato più di centosessanta articoli su riviste nazionali internazionali e tenuto numerose conferenze nelle scuole. Nel 2020 ha pubblicato per Zanichelli il libro Nove miliardi a tavola- Droni, big data e genomica per l’agricoltura 4.0. Coordina il progetto More Books dedicato alla pubblicazione di articoli e libri relativi alla teoria dell’evoluzione tra fine Ottocento e inizio Novecento in Italia.