Il cancro gioca evolutivo. L’evoluzione incontra l’oncologia
Al pari di ogni altro essere vivente, anche le cellule tumorali sono soggette alle regole dell’evoluzione. Mutano, si diversificano, e si “adattano” ai farmaci che dovrebbero eradicarle, sviluppando una resistenza che spesso vanifica ogni strategia terapeutica. I ricercatori stanno ora integrando una prospettiva evoluzionistica nell’elaborazione di nuovi approcci clinici, ridisegnando il panorama della ricerca oncologica degli ultimi decenni
Che l’evoluzione non sia più riducibile a un esercizio di ricostruzione storica che impegna vecchi appassionati di fossili nei seminterrati bui dei musei di storia naturale, è ad oggi un fatto evidente. La “grammatica” essenziale dei processi evolutivi – la variabilità nei tratti, i meccanismi di ereditarietà e i processi selettivi – ha acquisito nei nostri giorni una sempre maggiore rilevanza sperimentale, in grado di suggerire nuove prospettive di ricerca e contribuire attivamente a fondamentali conquiste applicative.
Il ruolo dei processi evolutivi nella moderna ricerca biomedica è noto da svariati decenni. Abbiamo familiarità col fenomeno della resistenza agli antibiotici nei batteri – oggi una delle maggiori minacce per la salute globale e la sicurezza alimentare sia nei paesi ad alto che a basso reddito[1]: una conseguenza dell’evoluzione per selezione naturale da manuale. Nel corso delle generazioni, come sappiamo, una colonia batterica può giungere a sviluppare una mutazione genetica che rende resistenti i portatori agli effetti battericidi o batteriostatici (limitanti cioè la replicazione batterica) di un trattamento antibiotico precedentemente risultato efficace. L’antibiotico-resistenza così sviluppata, in presenza di pressioni selettive costanti (la somministrazione su larga scala, se non l’abuso, dei medesimi antibiotici) prolifera in assenza di competizione da parte dei ceppi più vulnerabili, portando in tempi evolutivamente molto rapidi alla fissazione della mutazione favorevole, aumentandone la frequenza.
Oggi l’integrazione di una prospettiva evoluzionistica sta dettando trasformazioni radicali nei programmi di ricerca di numerose discipline scientifiche. Recentissima è l’assegnazione del Premio Nobel per la Chimica a Frances H. Arnold (per una metà) e a George P. Smith and Sir Gregory P. Winter (per l’altra) per la messa a punto di tecniche di accelerazione e controllo dell’evoluzione delle proteine in laboratorio. La Arnold, in particolare, a partire dagli anni ’90, ha condotto ricerche pioneristiche per lo sviluppo di un processo di “evoluzione diretta” degli enzimi, finalizzato alla creazione di proteine con “qualità utili” difficilmente sviluppabili senza l’intervento umano, sfruttando così meccanismi evolutivi (induzione di mutazioni casuali e selezione delle varianti desiderate) per metter a punto nuove soluzioni biologiche a problemi esistenti, con fondamentali applicazioni nella formulazione e produzione industriale di nuovi farmaci.
Ma un’altra importante branca specialistica della medicina in cui la recente penetrazione della prospettiva evoluzionistica sta riformulando ipotesi di ricerca battute per anni è l’oncologia. La ricerca oncologica rappresenta una delle maggiori sfide sociali del nostro tempo. L’incidenza e la mortalità di diverse forme di cancro stanno aumentando rapidamente a livello globale. È stato stimato che solo per il 2018 il numero dei nuovi casi diagnosticati raggiungerà la quota di 18,1 milioni, con 9,6 milioni di decessi.[2] Il cancro ai polmoni e al seno, i più comuni in tutto il mondo, rappresentano entrambi il 12,3% dei nuovi casi diagnosticati. Le proiezioni per il 2040 non sono rassicuranti: l’incidenza supererà i 29 milioni e mezzo, con 16,4 milioni di decessi previsti.[3] A profilarsi sono i contorni di una vera e propria epidemia, in cui il cancro diventerà una delle forme patologiche globalmente più impattanti.
Ma per quale ragione è così difficile eradicare una forma tumorale? Parte della risposta risiede in un semplice fatto che vanifica numerose strategie terapeutiche: il cancro evolve. Lo ha capito bene Charles Swanton, Chief clinician del Cancer Research Uk, e capo del gruppo di ricerca sull’evoluzione e l’instabilità genomica del cancro presso il Francis Crick Institute di Londra. Grazie al contributo di Swanton negli ultimi anni è risultato chiaro come l’eterogeneità intratumorale sia un potente motore evolutivo e adattativo, che oggi ostacola le opportunità terapeutiche della medicina di precisione basate su biopsie (prelievi) di singoli campioni tumorali. All’interno di una singola massa non si trovano due campioni uguali: le cellule tumorali rivelano profili morfologici e fenotipici distinti e questo complica in maniera notevole il quadro biologico, poiché cellule dissimili possono rispondere in maniera differente alle terapie somministrate, portando a esisti diversi.
Nel 2012 Swanton e il suo team[4] hanno prelevato dei campioni di tessuto tumorale da quattro pazienti affetti da tumore renale. Il prelievo è stato effettuato in regioni differenti del medesimo tumore, e dalle metastasi, in momenti diversi nel corso del trattamento. Quando i ricercatori hanno sequenziato i campioni per individuare le mutazioni genetiche occorse nel tempo, e ne hanno analizzato la struttura cromosomica, hanno realizzato che così facendo erano in grado di ricostruire la storia evolutiva del tumore, un po’ come un biologo evoluzionista traccia le origini degli organismi ricercando il più recente antenato comune. È possibile allora tracciare un albero filogenetico che descriva le relazioni tra le singole cellule tumorali, e identifichi una radice comune (il tronco dell’albero). Applicando così la prospettiva del pensiero filogenetico (tree-thinking), risulta chiaro che una mutazione che insorge nelle cellule maligne originarie, dunque nel tronco dell’albero, sarà presente anche nelle cellule dei rami, che si sono diversificate successivamente, mentre mutazioni tardive saranno tracciabili nelle sole ramificazioni periferiche. Per questa ragione, per eradicare il tumore, è necessario intercettare le mutazioni del tronco.
Terapie mirate che colpiscono le mutazioni del tronco esistono già, e normalmente registrano risposte straordinarie all’inizio. Tuttavia, i medici finiscono per scontrarsi con un vecchio problema: lo sviluppo della resistenza ai farmaci. Alberto Bardelli, direttore dell’unità IFOM “Genomica dei tumori e terapie anticancro mirate” all’Istituto per la Ricerca e Cura del Cancro di Candiolo (Torino), ha compreso come le singole terapie non siano sufficienti a eradicare efficacemente il tumore. Si è indotti a celebrare come un successo l’iniziale riduzione della massa tumorale, trascurando ciò che non è del tutto scomparso e che spesso si trasforma in cloni altamente resistenti alla terapia, determinando un nuovo aumento della massa. Nel 2011 Bardelli e il suo team hanno studiato modelli di risposta del cancro del colon-retto a terapie mirate somministrate in combinazione[5], aprendo nuove piste per prevenire la resistenza farmacologica delle cellule tumorali, giocate sull’idea di colpire contemporaneamente diverse mutazioni del tronco. Non per tutte le mutazioni, però, esistono farmaci mirati, e la messa a punto di combinazioni efficaci che minimizzino i danni al paziente rimane una sfida insidiosa.
Bardelli, tuttavia, come Swanton, sta prendendo seriamente l’idea che per il cancro valgano le stesse regole del gioco evolutivo. Le cellule tumorali si diversificano, trasmettono alle nuove cellule i “geni corrotti” e sono soggette a pressioni selettive (i farmaci), che vagliano le varietà resistenti alle terapie. Risulta fondamentale allora tener traccia dell’evoluzione delle cellule tumorali, per studiarne l’andamento a intervalli regolari. Non è possibile elaborare una terapia efficace sfruttando le informazioni provenienti da una biopsia precedente di anni, poiché la situazione “fotografata” non è più quella attuale. Ma sottoporre un paziente a frequenti esami con fattori di rischio come i prelievi bioptici, e che in alcuni casi richiedono interventi chirurgici, non è una via percorribile.
La ricercatrice Giulia Siravegna, nel team di ricerca di Bardelli presso Candiolo, ha perciò elaborato una modalità innovativa per misurare l’evoluzione – la “biopsia liquida” – una tecnica non invasiva che consiste in un semplice prelievo di sangue venoso, nel quale tuttavia possono essere tracciate cellule e frammenti di DNA libero di origine tumorale, che permettono un’analisi e una conta delle mutazioni avvenute[6]. Sapere quante mutazioni sono occorse è fondamentale per capire se il tumore è iper-mutato. Infatti, se una neoplasia è iper-mutata significa che risulta più attaccabile con l’immunoterapia, poiché più proteine mutate vengono prodotte dal tumore, maggiore è la probabilità del sistema immunitario di riconoscerle come nemico, azionandone la risposta.
Una delle piste di ricerca che impegnerà Bardelli nei prossimi anni – come ha spiegato a una conferenza tenuta presso il Dipartimento di Biologia dell’Università di Padova lo scorso 10 ottobre – consisterà nel capire se sia possibile ingannare il cancro sfruttando i suoi medesimi inganni, e cioè piegare le regole del gioco evolutivo a danno delle cellule tumorali. Come? Spingendo l’evoluzione fino agli estremi: inducendo attivamente nuove mutazioni, gonfiando la variabilità cellulare per produrre più antigeni rilevabili, e stimolare così la risposta immunitaria. Si tratta di correre una gara evolutiva contro il cancro e le dinamiche popolazionali delle cellule maligne, nonché di risolvere un vero e proprio problema matematico, che richiederà sempre più l’integrazione di modelli computazionali in grado di catturare la progressione del cancro e adeguarne le terapie.
Gli esiti di queste intuizioni rimangono tuttavia aperti. L’integrazione di una prospettiva evoluzionistica segna l’inizio di un programma importante, in grado di ampliare l’arsenale degli strumenti e delle tecniche di analisi a disposizione. Ma lo sforzo rimane uno corale, per moltiplicare ulteriormente i punti di osservazione e i livelli di studio degli enigmi dell’oncogenesi, favorendo la sperimentazione di nuove soluzioni cliniche. Un programma tra cooperazione, ricerca e speranza.
Andra Meneganzin, da La Mela di Newton
NOTE
[1] Il primo rapport del “Global Antimicrobical Surveillance system (GLASS)” è disponibile sul sito dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) al seguente link: http://www.who.int/glass/resources/publi…
[2] Bray F, Ferlay J, Soerjomataram I, Siegel RL, Torre LA, Jemal A. Global Cancer Statistics 2018: GLOBOCAN estimates of incidence and mortality worldwide for 36 cancers in 185 countries. CA: a Cancer Journal for Clinicians. Il database GLOBOCAN 2018, parte dello IARC Global Cancer Observatory, è consultabile al link http://gco.iarc.fr/.
[3] http://gco.iarc.fr/tomorrow/home
[4] Gerlinger M, Rowan AJ, Horswell S, Larkin J, Endesfelder D, et al. 2012. Intratumor heterogeneity and branched evolution revealed by multiregion sequencing. N. Engl. J. Med. 366:883–92
[5] Misale S. et al (2015). Vertical suppression of the EGFR pathway prevents onset of resistance in colorectal cancers. Nature communications 6: 8305
[6] Siravegna G. et al (2015). Clonal evolution and resistance to EGFR blockade in the blood of colorectal cancer patients. Nature Medicine volume 21, pages 795–801