Il segreto dell’apnea

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Un particolare tipo di mioglobina consente ai mammiferi acquatici e semi-acquatici di compiere lunghe immersioni: un esempio di evoluzione convergente

I mammiferi acquatici, quali cetacei, pinnipedi, sirenidi, hanno una struttura corporea da animali terrestri, dovuta all’origine sulla terraferma dei loro progenitori, ma possiedono diversi adattamenti specifici che permettono loro di vivere in un ambiente del tutto diverso. La completa colonizzazione delle acque ha implicato profonde modificazioni sia anatomiche che fisiologiche: tra queste, diverse riguardano le modalità di respirazione e la conservazione dell’ossigeno, responsabili della loro capacità di sostenere immersioni ad elevate profondità e per lungo tempo.
Uno degli adattamenti che consente le lunghe apnee, che in alcune specie possono durare fino a due ore, è l’accumulo dell’ossigeno nei tessuti muscolari scheletrici, dovuto all’azione della mioglobina, una proteina globulare in grado di legare il prezioso gas respitorio. Sin dai primi anni ’60 del secolo scorso, quando questa fu scoperta nei tessuti di un capodoglio, alte concentrazioni di mioglobina sono da sempre state associate ad ottime capacità di immersione: tuttavia, poco si conosce in merito ai meccanismi molecolari e biochimici che permettono una tale specializzazione. In particolare, è noto che ad alte concentrazioni le proteine tendono a collassare l’una sull’altra, limitando la funzionalità e dunque la capacità di legare l’ossigeno.
Un gruppo di ricercatori della University of Liverpool, della University of Manitoba e della University of Alaska ha deciso di andare a fondo alla questione, analizzando le concentrazioni di mioglobina in tutti i gruppi di mammiferi acquatici e semi-acquatici attuali e tracciandone la storia evolutiva nel corso degli ultimi 200 milioni di anni.
In primo luogo, lo studio, pubblicato sull’ultimo numero di Science, mostra che i tessuti muscolari dei mammiferi acquatici, dai piccoli roditori alle balenottere azzurre, possiedono una forma speciale di mioglobina che presenta sulla superficie un’elevata carica elettrica netta, che aumenta in maniera esponenziale alla concentrazione della proteina nei muscoli. Secondo i ricercatori, è proprio questo stratagemma di repulsione elettrostatica a mantenere distanti tra loro le diverse molecole, rendendole funzionali e maggiormente reattive all’ossigeno. Questa caratteristica, insieme alle dimensioni corporee, spiegherebbe oltre l’80% delle capacità di immersione delle specie. Siamo di fronte a un caso esemplare di evoluzione convergente, ovvero ad un caso in cui simili adattamenti si sono originati in gruppi di organismi diversi, anche non imparentati tra loro.
Da questo punto di partenza, lo studio ricostruisce un accurato albero filogenetico composto da circa 130 specie, al fine di stimare la carica elettrica delle mioglobine di diverse specie estinte. Combinando questa informazione acquisita con le dimensioni corporee ricavate dai fossili, è stato possibile ipotizzare i loro tempi di immersione massimi, e quindi sulle possibili abitudini alimentari delle specie del passato. E così, ad esempio, Pakicetus, uno dei primi antenati dei cetacei delle dimensioni di un lupo era probabilmente in grado di stare sott’acqua per soli 90 secondi, mentre Basilosaurus, di 15 milioni di anni più recente ma di dimensioni enormi, poteva immergersi per oltre 15 minuti. Lo stesso metodo ha permesso di stabilire un’origine acquatica per alcuni gruppi animali attualmente non associati all’ambiente marino, quali gli elefanti, gli echidna e le talpe.
Andrea Romano
Crediti immagine: Andrea Romano