Il segreto delle immersioni dei pinnipedi
Gli organismi che dividono la loro vita tra l’ambiente terrestre e quello acquatico sono costretti a fronteggiare svariate diverse difficoltà legate ad entrambi gli ambienti. Per le specie poi che non si limitano a stare a galla ma che si spingono fino a grandi profondità, come la maggior parte dei pinnipedi, hanno inoltre il grosso problema di dover resistere all’elevata […]
Gli organismi che dividono la loro vita tra l’ambiente terrestre e quello acquatico sono costretti a fronteggiare svariate diverse difficoltà legate ad entrambi gli ambienti. Per le specie poi che non si limitano a stare a galla ma che si spingono fino a grandi profondità, come la maggior parte dei pinnipedi, hanno inoltre il grosso problema di dover resistere all’elevata pressione dell’acqua con un corpo che si è evoluto sulla terraferma.
Come fanno dunque foche e otarie a raggiungere elevate profondità marine senza venire sopraffatti dalla pressione e senza risentire dei problemi legati alla decompressione in fase di risalita? Uno studio pubblicato sulla rivista Biology Letters e condotto sul leone marino californiano (Zalophus californianus) finalmente ci fornisce questa risposta. Un gruppo di ricercatori del Center for Marine Biotechnology and Biomedicine di La Jolla, California, ha infatti monitorato il comportamento di una femmina adulta durante ripetute immersioni fino ad una profondità massima di 300 metri. In particolare, nelle regione dorsale dell’animale è stato posizionato un dispositivo capace di registrare la variazione di pressione dell’ossigeno in circolo nel sangue, un indicatore della compressione polmonare durante le immersioni.
Ebbene, questa specie adotta una precisa strategia per limitare le possibilità che le cavità interne, piene d’aria, possano collassare per effetto della pressione: a circa 225 metri di profondità, i leoni marini sono in grado di schiacciare i polmoni estromettendone l’aria per poi espanderli nuovamente durante la fase di risalita alla stessa profondità. Questa tecnica assicura di evitare problemi legati alla decompressione, limitando la concetrazione dei composti dell’azoto tossici nel circolo sanguigno. Inoltre, la compressione dei polmoni assicura una riserva di ossigeno polmonare che viene poi utilizzata durante la risalita.
Andrea Romano
Riferimenti:
Birgitte I. McDonald, Paul J. Ponganis. Lung collapse in the diving sea lion: hold the nitrogen and save the oxygen. Biol. Lett. 2012, doi: 10.1098/rsbl.2012.0743
Immagine: Credit: © Birgitte McDonald
Ecologo e docente di Etologia e Comportamento Animale presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università di Milano. Ha scritto di animali ed evoluzione su Le Scienze, Mente e Cervello, Oggiscienza e Focus D&R . Collabora con Pikaia, di cui è stato caporedattore dal lontano 2007 al 2020.