In difesa della teoria della fitness inclusiva

Se il solo ‘scopo’ degli individui in natura fosse la propagazione dei propri geni in maniera del tutto egoistica, come spiegare la miriade di esempi di altruismo che si vedono in natura? Come spiegare, ad esempio, i richiami di allarme nei confronti di un predatore che espongono l’autore ad un attacco? Come spiegare l’esistenza di individui che ne aiutano altri

Se il solo ‘scopo’ degli individui in natura fosse la propagazione dei propri geni in maniera del tutto egoistica, come spiegare la miriade di esempi di altruismo che si vedono in natura? Come spiegare, ad esempio, i richiami di allarme nei confronti di un predatore che espongono l’autore ad un attacco? Come spiegare l’esistenza di individui che ne aiutano altri ad allevare i figli senza averne di propri? E, soprattutto, come spiegare l’evoluzione delle specie eusociali, quelle che sono suddivise in caste riproduttive e in cui la maggior parte degli individui rinuncia alla propria riproduzione in favore di quella altrui?

Tutti questi casi di altruismo in natura costituivano un grosso problema per la teoria dell’evoluzione per selezione naturale, almeno fino a quando, nel 1964, il biologo evoluzionista William Donald Hamilton propose la teoria della fitness inclusiva (o fitness totale). La fitness inclusiva coincide con la somma della fitness diretta dell’individuo (il numero di figli prodotti) e della fitness indiretta, quella derivante dalla riproduzione di individui strettamente imparentati.

Fondamentale per comprendere il modello di Hamilton è il concetto di ‘coefficiente di parentela’, su cui è nata la teoria della kin selection (o selezione di parentela). Il coefficiente di parentela indica la percentuale di genoma condiviso tra due individui per effetto di una discendenza comune: ad esempio, tra genitori e figli il coefficiente di parentela è 0,5, in quanto ciascun genitore contribuisce alla metà del patrimonio genetico della prole e, ripetendo il ragionamento, quello tra nonni e nipoti è 0,25. In questo contesto, potrebbe essere vantaggioso per un individuo rinunciare ad allevare un figlio proprio (coefficiente di parentela 0,5) e contribuire all’allevamento di di tre nipoti (0,25*3= 0,75). Allo stesso modo, potrebbe essere vantaggioso rischiare di attirare verso di sè l’attenzione di un predatore se, contemporaneamente, si garantisce la fuga di numerosi individui strettamente imparentati.

Il caso estremo di questo ragionamento riguarda le specie eusociali, in cui le operaie, che condividono tra di loro la bellezza del 75% del patrimonio genetico (coefficiente di parentela 0,75, dovuto al meccanismo di determinazione del sesso negli imenotteri, in cui i maschi sono aploidi e le femmine diplodi: determinazione del sesso aplodiploide). Gli individui non riproduttori, nonostante non abbiano fitness diretta, beneficiano enormemente di fitness indiretta, contribuendo alla cura e all’allevamento delle proprie sorelle. Nel corso dell’evoluzione, quando i vantaggi di questo comportamento hanno superato i benefici di una riproduzione propria, l’eusocialità sarebbe quindi stata favorita dalla selezione naturale.

Secondo questa teoria, insomma, i costi imposti da un comportamento altruistico verrebbeo superati dai benefici in termini di fitness. Di conseguenza, i comportamenti che sembrano altruistici nei confronti di parenti stretti, quindi, non sarebbero in realtà davvero altruistici, in quanto concorrono ad incrementare la fitness indiretta e, nel complesso, la fitness totale.

Per decenni i concetti di kin selection e fitness inclusiva sono stati utilizzati da migliaia di biologi evoluzionisti in tutto il mondo per formulare le interpetazioni dei più svariati comportamenti animali, almeno fino allo scorso anno, quando erano stati pesantemente messi in discussione dalle pagine di Nature (abstract). Gli autori, tra cui E.O.Wilson, già nell’abstract dichiararono: “Here we show the limitations of this approach. We argue that standard natural selection theory in the context of precise models of population structure represents a simpler and superior approach, allows the evaluation of multiple competing hypotheses, and provides an exact framework for interpreting empirical observations.”

Ed è proprio la prestigiosa rivista inglese a pubblicare nel suo ultimo numero un piccolo speciale dedicato alla difesa dell’idea di Hamilton, che riguarda in particolare l’evoluzione dell’eusocialità. Numerosi esperti di fama mondiale presentano i loro risultati che confermerebbero la validità del concetto di fitness inclusiva.

Insomma, la teoria della fitness inclusiva non si tocca e per altre decine di anni, almeno fino a quando ne verrà formulata un’altra in grado di spiegare meglio i fenomeni in questione, gli ecologi del comportamento potranno ancora avvalersene per interpretare i risultati delle loro ricerche.

Andrea Romano

Riferimenti:

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Regis Ferriere, Richard E. Michod. Inclusive fitness in evolution. Nature, 2011; 471 (7339): E6 DOI: 10.1038/nature09834

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Martin A. Nowak, Corina E. Tarnita, Edward O. Wilson. The evolution of eusociality. Nature, 2010; 466 (7310): 1057 DOI: 10.1038/nature09205