Intervista a Francesco d’Errico
Intervista esclusiva a Francesco d’Errico, tra i massimi esperti mondiali di evoluzione umana: si parla di comportamenti simbolici nei Neanderthal
Durante il workshop “What made us human” tenutosi ad Erice presso il Centro Ettore Majorana si è colta l’opportunità di porgere qualche domanda al professor d’Errico dell’Universite´ de Bordeaux. Il professore è autore di molteplici pubblicazioni, sulle più importanti riviste scientifiche internazionali, riguardanti studi sul comportamento e sui reperti archeologici associati a popolazioni di Homo sapiens, Homo neanderthalensis e Homo erectus; recentemente si è occupato della documentazione archeologica associata a popolazioni di Homo erectus a Giava e di incisioni di neanderthaliani a Gibilterra.
Intervista a Francesco d’Errico
Pikaia: La ricerca archeologica potrebbe aiutarci a chiarire alcuni problemi aperti e che suscitano tante discussioni, per esempio la questione della produzione archeologica e delle capacità simboliche dei Neanderthal è un argomento attuale e dibattuto. Lei ha recentemente pubblicato a riguardo. Potrebbe riassumere le più recenti acquisizioni?
d’Errico: Recentemente ho pubblicato un articolo su PNAS sulle incisioni di Gibilterra (Pikaia ne ha parlato qui), riguardanti la scoperta di un motivo astratto inciso sul fondo della grotta di Gorham’s cave. Si tratta di un caso piuttosto eccezionale in quanto questa incisione era ricoperta da livelli musteriani, cioè accumulati da uomini di Neanderthal e questo garantisce che sia stata fatta da loro. L’incisione in sé stessa non può essere datata, però le date del livello musteriano più antiche risalgono intorno a 39000 anni fa, quindi l’incisione deve essere più antica. Un aspetto interessante è che abbiamo potuto studiarla in modo preciso, creando anche una ricostruzione in tre dimensioni, mentre attraverso una riproduzione sperimentale abbiamo mostrato che le incisioni sono il risultato di passaggi ripetuti dello strumento: per fare delle incisioni così profonde si è calcolato che siano stati necessari circa 200-300 passaggi. Poi si è studiato anche come mai l’incisione è coperta di una patina nera: assieme agli altri autori dell’articolo si sono ricostruiti i processi geochimici che hanno prodotto tale patina nera sull’incisione e da ciò si può inferire che sia autentica e non un falso. Certamente non si tratta né di Lascaux né di Altamira, ma è la dimostrazione che in alcuni casi i Neanderthal hanno avuto il bisogno di marcare il loro spazio abitativo con delle incisioni che erano perfettamente visibili a colui che le aveva prodotte e ad altri membri del gruppo. Ma non si tratta della sola incisione neanderthaliana, sono state ritrovate altre incisioni e motivi astratti su molti oggetti, per esempio ossa e pietre, sebbene questa sia la prima volta che troviamo qualcosa all’interno di una grotta. Inoltre l’analisi mostra che questa incisione non sia come dicono i colleghi inglesi un “doodling”, scarabocchi che si fanno su carta mentre si parla al telefono, bensì il risultato di comportamenti finalizzati e intenzionali, cioè si tratta di qualcosa di voluto. Negli ultimi tempi abbiamo pubblicato anche un articolo sul Journal of Archeological Science sui pigmenti usati dagli ultimi Neanderthal, cioè quelli del castelperroniano. In un sito vicino ad Arcy-sur-cure sono stati rinvenuti 18 kg di pigmenti di colore nero e rosso. Ma visto che alcuni aspetti della stratigrafia di questo sito sono contestati abbiamo pensato potesse essere interessante lavorare anche su altri siti, forse meno ricchi dal punto di vista archeologico, ma dallo studio dei quali abbiamo potuto mostrare quanto fosse comune l’uso di pigmenti rossi e neri in questa cultura situata verso la fine della traiettoria culturale dei neanderthaliani. Abbiamo mostrato che utilizzavano una grande varietà di pigmenti, soprattutto rossi, e che questi potevano essere usati con scopi diversi: per esempio i pigmenti molto fini potevano essere impiegati in attività simboliche, per delle pitture corporali; altri pigmenti invece potevano essere frantumati in modo più grossolano e poi essere impiegati per creare dei mastici o additivi per immanicare strumenti.
Pikaia: Mi domando quanto può essere stato influente un vecchio paradigma interpretativo che inquadrava i Neanderthal quali “uomini delle caverne”, bruti, non umani, incapaci conseguentemente di pensiero simbolico, nel renderci ciechi di fronte alle evidenze di manifestazioni di pensiero simbolico da parte loro e di altre specie, portandoci ad attribuire arrogantemente ogni indizio di pensiero simbolico solo alla nostra specie.
d’Errico: Solitamente scienziati e pubblico guardano a questi dati interpretandoli attraverso delle “immagini influenti”. Alcuni ricercatori inglesi, ad esempio, hanno difficoltà ad accettare una visione delle società neanderthaliane come autonomamente capaci di sviluppare innovazioni, e che queste possano poi essere compartite tra neanderthaliani e uomini moderni. Altre tradizioni culturali, per esempio quelle dell’Europa mediterranea, sono più aperte all’idea che i neanderthaliani in alcuni casi abbiano potuto sviluppare innovazioni in modo autonomo. Mi ricordo la prima volta che pubblicammo un articolo che metteva in questione il concetto di acculturazione per i neanderthaliani, nel 1998 in Current Anthropology, e dal quale è scaturito un dibattito vivace. Un collega anglosassone nella foga del dibattito avanzò l’idea che i neanderthaliani ricevessero gli ornamenti dagli uomini moderni proprio come se si trattasse di “beads for the indigenes”, ovvero come quando i colonizzatori europei arrivavano in Africa e scambiavano le perline con gli indigeni: un vero e proprio modello colonialista applicato ai neanderthaliani. Siamo tutti vittime di preconcetti. È difficile rimanere neutri. Un articolo pubblicato une trentina di anni fa tentò di dimostrare come a seconda dell’epoca nella quale i neanderthaliani venivano analizzati, la loro interpretazione cambiava in relazione a cambiamenti storico-politici e relazioni coloniali che il mondo occidentale intratteneva con il resto del globo. Guardare i neanderthaliani è guardare noi stessi, il problema non sono i neanderthaliani ma è l’immagine che noi abbiamo dell’umanità moderna.
Pikaia: Un paradigma può anche essere utile nel momento in cui fornisce una conoscenza utile all’interpretazione di oggetti che altrimenti rimarrebbero muti, mi riferisco alla capacità degli archeologi di “far parlare le pietre” e di riuscire ad estrapolare informazioni interessanti là dove un individuo non esperto vede solo un accozzaglia di cose insensate.
d’Errico: la questione che tu mi poni è: quali sono gli strumenti che l’archeologia ha a sua disposizione per far parlare questi resti? Gli archeologi hanno creato strumenti per trarre inferenze di tipo cognitivo a partire dai resti archeologici. Lo studio della catena operativa in un sistema tecnico né è un esempio: il fine è di capire cosa è successo a partire dall’origine della materia prima fino al momento in cui gli strumenti, ornamenti, pigmenti vengono gettati, quindi comprendere quali sono state le scelte che l’artigiano ha compiuto in ogni tappa di produzione. Si possono trarre anche utili informazioni sulla variabilità comportamentale all’interno di queste tappe. Per esempio si può tornare indietro a partire dalla fase finale per cercare di capire qual è stata la logica dietro le scelte che hanno condotto da una tappa all’altra, ma anche la complessità comportamentale insita in queste scelte; quindi le difficoltà nel trasmettere l’insieme di questa catena operativa da una generazione all’altra. Ma vi sono altri strumenti, per esempio il ricorso all’etnoarcheologia, ovvero il guardare alle società tradizionali che possiedono una conoscenza specifica di tecniche usate nella preistoria. L’etnoarcheologia è importante perché ci permette di comprendere la catena operativa presso certe popolazioni. Ma questa non è interessante nel senso che un ricercatore, a partire da ciò che osserva presso popolazioni tradizionali, possa estrapolare e proiettare il significato di queste pratiche direttamente in popolazioni del passato. Questo errore è stato commesso nel XIX secolo, quando si pensava ingenuamente che le popolazioni tradizionali attuali non fossero altro che l’esempio vivente di popolazioni preistoriche. Quest’oggi il nostro approccio è più prudente, cioè ci interessiamo alla catena operativa e al saper fare di queste popolazioni per capire quali possano essere le difficoltà in alcuni procedimenti tecnici, successivamente si può ricostruirle e confrontarle con le catene operative che attualizzavano popolazioni del paleolitico, quindi capire in che cosa si assomigliano, in che cosa sono diverse, in che cosa lo scopo della catena operativa attuale o sub-attuale crei un parallelo significativo con quella paleolitica. Tutti questi mezzi si sono arricchiti negli ultimi tempi degli strumenti dell’archeometria, che sono quelli che ci permettono di andare più in profondità nell’analisi dei resti. Ora abbiamo dei mezzi per quantificare ciò che vediamo attraverso la microscopia confocale, l’interferometria, che permettono di studiare lo stato di una superficie e applicare delle variabili di tipo rugosimetrico. Poi vi sono i mezzi che ci permettono di fare analisi fisico-chimiche, permettendoci di estrapolare utili informazioni per esempio sui pigmenti. Per studiare la catena operativa il ricercatore desidera conoscere quale sia la prima tappa, dunque va alla ricerca della materia prima, del luogo da dove possano provenire i pigmenti, perché questo ha delle implicazioni cognitive: una questione è cercare del pigmento e trovarlo a 50 metri dalla grotta e un’altra cosa è trovarlo a 50 km. Perché cercarlo a 50 km? In cosa si distinguono i pigmenti vicini al sito da quelli ricercati lontano? Analisi elementari, mineralogiche e degli elementi in traccia permettono spesso di individuare i luoghi dove il pigmento è stato raccolto. La medesima considerazione vale per le ossa, al fine di identificarne la materia prima, per vedere se siano state alterate nel momento della lavorazione o se fossero fresche. La stessa cosa per il litico: ci sono molti studi che ricostruiscono i percorsi stagionali dei cacciatori paleolitici, cercando di capire non solo dove fossero andati a cercare le selci di un certo tipo ma anche se queste selci fossero state scambiate con altri gruppi. Ricerche sugli ornamenti prendono spunto da metodi statistici utilizzati in genetica con lo scopo di studiare spazialmente la distribuzione di certi ornamenti. Utilizzando questi metodi abbiamo mostrato per esempio che ogni gruppo aurignaziano usava ornamenti diversi ma compartiva una parte di questi con i gruppi vicini e che più ci si allontana da una certa regione più gli ornamenti condivisi diminuiscono. Noi abbiamo interpretato questo come riflesso di una geografia linguistica o etnolinguistica. Analisi su conchiglie usate come ornamenti ci permettono di sapere come le conchiglie sono state perforate, se i preistorici hanno preferito raccogliere conchiglie già morte o vive: l’analisi isotopica dello stronzio permette di sapere se le conchiglie sono state raccolte in un giacimento fossile o sulla costa. Per quanto gli archeologi possano sembrare ad alcuni osservatori come degli “antiquari antiquati” anch’essi, nel loro piccolo, hanno sviluppato tecniche moderne per far parlare il materiale archeologico.
Pikaia: Come lei ha sottolineato la ricerca scientifica sta proliferando in molti campi diversi e pare farsi pressante la necessità che un vincolo più stretto possa legare le diverse discipline nel loro sviluppo. Una fecondazione incrociata di diverse discipline, che riguardi la tecnologia e le acquisizioni teoriche, sarebbe auspicabile per permettere un aumento della nostra conoscenza e una sua raffinazione.
d’Errico: La metodologia è certo importante, ma quello che è ancora più importante è una fertilizzazione incrociata delle idee. Molti archeologi presentano delle deficienze in alcuni campi, mi rifaccio all’esempio francese che è il contesto dal quale provengo: molti archeologi francesi sono eccellenti nel loro lavoro, in alcuni casi i migliori al mondo, ma sovente sono troppo focalizzati sul loro soggetto di studio principale e considerano gli apporti potenziali di altre discipline come poco utili alle loro ricerche. Il problema è quello di sviluppare l’interdisciplinarità. Ma sono scettico sulla creazione dell’interdisciplinarità per ordine di coloro che danno i fondi, dunque imposta. L’interdisciplinarità burocratica non è una cosa che funziona. Essa dovrebbe essere favorita da persone che nel loro percorso abbiano accumulato delle competenze diverse, archeologi che siano anche fisici, paleoantropologi che conoscano anche la scheggiatura della selce o geologi che siano anche microscopisti. L’importante è la curiosità propositiva di ogni ricercatore, la sua voglia di correre rischi e aprirsi a collaborazioni. Una certa apertura mentale e conoscenze che permettano di sapere cosa si possa chiedere agli altri, e la capacità di individuare i problemi che gli altri incontrano nella discussione e nell’interpretazione dei loro dati sono fondamentali
Olmo Viola
Intervista a Francesco d’Errico
Pikaia: La ricerca archeologica potrebbe aiutarci a chiarire alcuni problemi aperti e che suscitano tante discussioni, per esempio la questione della produzione archeologica e delle capacità simboliche dei Neanderthal è un argomento attuale e dibattuto. Lei ha recentemente pubblicato a riguardo. Potrebbe riassumere le più recenti acquisizioni?
d’Errico: Recentemente ho pubblicato un articolo su PNAS sulle incisioni di Gibilterra (Pikaia ne ha parlato qui), riguardanti la scoperta di un motivo astratto inciso sul fondo della grotta di Gorham’s cave. Si tratta di un caso piuttosto eccezionale in quanto questa incisione era ricoperta da livelli musteriani, cioè accumulati da uomini di Neanderthal e questo garantisce che sia stata fatta da loro. L’incisione in sé stessa non può essere datata, però le date del livello musteriano più antiche risalgono intorno a 39000 anni fa, quindi l’incisione deve essere più antica. Un aspetto interessante è che abbiamo potuto studiarla in modo preciso, creando anche una ricostruzione in tre dimensioni, mentre attraverso una riproduzione sperimentale abbiamo mostrato che le incisioni sono il risultato di passaggi ripetuti dello strumento: per fare delle incisioni così profonde si è calcolato che siano stati necessari circa 200-300 passaggi. Poi si è studiato anche come mai l’incisione è coperta di una patina nera: assieme agli altri autori dell’articolo si sono ricostruiti i processi geochimici che hanno prodotto tale patina nera sull’incisione e da ciò si può inferire che sia autentica e non un falso. Certamente non si tratta né di Lascaux né di Altamira, ma è la dimostrazione che in alcuni casi i Neanderthal hanno avuto il bisogno di marcare il loro spazio abitativo con delle incisioni che erano perfettamente visibili a colui che le aveva prodotte e ad altri membri del gruppo. Ma non si tratta della sola incisione neanderthaliana, sono state ritrovate altre incisioni e motivi astratti su molti oggetti, per esempio ossa e pietre, sebbene questa sia la prima volta che troviamo qualcosa all’interno di una grotta. Inoltre l’analisi mostra che questa incisione non sia come dicono i colleghi inglesi un “doodling”, scarabocchi che si fanno su carta mentre si parla al telefono, bensì il risultato di comportamenti finalizzati e intenzionali, cioè si tratta di qualcosa di voluto. Negli ultimi tempi abbiamo pubblicato anche un articolo sul Journal of Archeological Science sui pigmenti usati dagli ultimi Neanderthal, cioè quelli del castelperroniano. In un sito vicino ad Arcy-sur-cure sono stati rinvenuti 18 kg di pigmenti di colore nero e rosso. Ma visto che alcuni aspetti della stratigrafia di questo sito sono contestati abbiamo pensato potesse essere interessante lavorare anche su altri siti, forse meno ricchi dal punto di vista archeologico, ma dallo studio dei quali abbiamo potuto mostrare quanto fosse comune l’uso di pigmenti rossi e neri in questa cultura situata verso la fine della traiettoria culturale dei neanderthaliani. Abbiamo mostrato che utilizzavano una grande varietà di pigmenti, soprattutto rossi, e che questi potevano essere usati con scopi diversi: per esempio i pigmenti molto fini potevano essere impiegati in attività simboliche, per delle pitture corporali; altri pigmenti invece potevano essere frantumati in modo più grossolano e poi essere impiegati per creare dei mastici o additivi per immanicare strumenti.
Pikaia: Mi domando quanto può essere stato influente un vecchio paradigma interpretativo che inquadrava i Neanderthal quali “uomini delle caverne”, bruti, non umani, incapaci conseguentemente di pensiero simbolico, nel renderci ciechi di fronte alle evidenze di manifestazioni di pensiero simbolico da parte loro e di altre specie, portandoci ad attribuire arrogantemente ogni indizio di pensiero simbolico solo alla nostra specie.
d’Errico: Solitamente scienziati e pubblico guardano a questi dati interpretandoli attraverso delle “immagini influenti”. Alcuni ricercatori inglesi, ad esempio, hanno difficoltà ad accettare una visione delle società neanderthaliane come autonomamente capaci di sviluppare innovazioni, e che queste possano poi essere compartite tra neanderthaliani e uomini moderni. Altre tradizioni culturali, per esempio quelle dell’Europa mediterranea, sono più aperte all’idea che i neanderthaliani in alcuni casi abbiano potuto sviluppare innovazioni in modo autonomo. Mi ricordo la prima volta che pubblicammo un articolo che metteva in questione il concetto di acculturazione per i neanderthaliani, nel 1998 in Current Anthropology, e dal quale è scaturito un dibattito vivace. Un collega anglosassone nella foga del dibattito avanzò l’idea che i neanderthaliani ricevessero gli ornamenti dagli uomini moderni proprio come se si trattasse di “beads for the indigenes”, ovvero come quando i colonizzatori europei arrivavano in Africa e scambiavano le perline con gli indigeni: un vero e proprio modello colonialista applicato ai neanderthaliani. Siamo tutti vittime di preconcetti. È difficile rimanere neutri. Un articolo pubblicato une trentina di anni fa tentò di dimostrare come a seconda dell’epoca nella quale i neanderthaliani venivano analizzati, la loro interpretazione cambiava in relazione a cambiamenti storico-politici e relazioni coloniali che il mondo occidentale intratteneva con il resto del globo. Guardare i neanderthaliani è guardare noi stessi, il problema non sono i neanderthaliani ma è l’immagine che noi abbiamo dell’umanità moderna.
Pikaia: Un paradigma può anche essere utile nel momento in cui fornisce una conoscenza utile all’interpretazione di oggetti che altrimenti rimarrebbero muti, mi riferisco alla capacità degli archeologi di “far parlare le pietre” e di riuscire ad estrapolare informazioni interessanti là dove un individuo non esperto vede solo un accozzaglia di cose insensate.
d’Errico: la questione che tu mi poni è: quali sono gli strumenti che l’archeologia ha a sua disposizione per far parlare questi resti? Gli archeologi hanno creato strumenti per trarre inferenze di tipo cognitivo a partire dai resti archeologici. Lo studio della catena operativa in un sistema tecnico né è un esempio: il fine è di capire cosa è successo a partire dall’origine della materia prima fino al momento in cui gli strumenti, ornamenti, pigmenti vengono gettati, quindi comprendere quali sono state le scelte che l’artigiano ha compiuto in ogni tappa di produzione. Si possono trarre anche utili informazioni sulla variabilità comportamentale all’interno di queste tappe. Per esempio si può tornare indietro a partire dalla fase finale per cercare di capire qual è stata la logica dietro le scelte che hanno condotto da una tappa all’altra, ma anche la complessità comportamentale insita in queste scelte; quindi le difficoltà nel trasmettere l’insieme di questa catena operativa da una generazione all’altra. Ma vi sono altri strumenti, per esempio il ricorso all’etnoarcheologia, ovvero il guardare alle società tradizionali che possiedono una conoscenza specifica di tecniche usate nella preistoria. L’etnoarcheologia è importante perché ci permette di comprendere la catena operativa presso certe popolazioni. Ma questa non è interessante nel senso che un ricercatore, a partire da ciò che osserva presso popolazioni tradizionali, possa estrapolare e proiettare il significato di queste pratiche direttamente in popolazioni del passato. Questo errore è stato commesso nel XIX secolo, quando si pensava ingenuamente che le popolazioni tradizionali attuali non fossero altro che l’esempio vivente di popolazioni preistoriche. Quest’oggi il nostro approccio è più prudente, cioè ci interessiamo alla catena operativa e al saper fare di queste popolazioni per capire quali possano essere le difficoltà in alcuni procedimenti tecnici, successivamente si può ricostruirle e confrontarle con le catene operative che attualizzavano popolazioni del paleolitico, quindi capire in che cosa si assomigliano, in che cosa sono diverse, in che cosa lo scopo della catena operativa attuale o sub-attuale crei un parallelo significativo con quella paleolitica. Tutti questi mezzi si sono arricchiti negli ultimi tempi degli strumenti dell’archeometria, che sono quelli che ci permettono di andare più in profondità nell’analisi dei resti. Ora abbiamo dei mezzi per quantificare ciò che vediamo attraverso la microscopia confocale, l’interferometria, che permettono di studiare lo stato di una superficie e applicare delle variabili di tipo rugosimetrico. Poi vi sono i mezzi che ci permettono di fare analisi fisico-chimiche, permettendoci di estrapolare utili informazioni per esempio sui pigmenti. Per studiare la catena operativa il ricercatore desidera conoscere quale sia la prima tappa, dunque va alla ricerca della materia prima, del luogo da dove possano provenire i pigmenti, perché questo ha delle implicazioni cognitive: una questione è cercare del pigmento e trovarlo a 50 metri dalla grotta e un’altra cosa è trovarlo a 50 km. Perché cercarlo a 50 km? In cosa si distinguono i pigmenti vicini al sito da quelli ricercati lontano? Analisi elementari, mineralogiche e degli elementi in traccia permettono spesso di individuare i luoghi dove il pigmento è stato raccolto. La medesima considerazione vale per le ossa, al fine di identificarne la materia prima, per vedere se siano state alterate nel momento della lavorazione o se fossero fresche. La stessa cosa per il litico: ci sono molti studi che ricostruiscono i percorsi stagionali dei cacciatori paleolitici, cercando di capire non solo dove fossero andati a cercare le selci di un certo tipo ma anche se queste selci fossero state scambiate con altri gruppi. Ricerche sugli ornamenti prendono spunto da metodi statistici utilizzati in genetica con lo scopo di studiare spazialmente la distribuzione di certi ornamenti. Utilizzando questi metodi abbiamo mostrato per esempio che ogni gruppo aurignaziano usava ornamenti diversi ma compartiva una parte di questi con i gruppi vicini e che più ci si allontana da una certa regione più gli ornamenti condivisi diminuiscono. Noi abbiamo interpretato questo come riflesso di una geografia linguistica o etnolinguistica. Analisi su conchiglie usate come ornamenti ci permettono di sapere come le conchiglie sono state perforate, se i preistorici hanno preferito raccogliere conchiglie già morte o vive: l’analisi isotopica dello stronzio permette di sapere se le conchiglie sono state raccolte in un giacimento fossile o sulla costa. Per quanto gli archeologi possano sembrare ad alcuni osservatori come degli “antiquari antiquati” anch’essi, nel loro piccolo, hanno sviluppato tecniche moderne per far parlare il materiale archeologico.
Pikaia: Come lei ha sottolineato la ricerca scientifica sta proliferando in molti campi diversi e pare farsi pressante la necessità che un vincolo più stretto possa legare le diverse discipline nel loro sviluppo. Una fecondazione incrociata di diverse discipline, che riguardi la tecnologia e le acquisizioni teoriche, sarebbe auspicabile per permettere un aumento della nostra conoscenza e una sua raffinazione.
d’Errico: La metodologia è certo importante, ma quello che è ancora più importante è una fertilizzazione incrociata delle idee. Molti archeologi presentano delle deficienze in alcuni campi, mi rifaccio all’esempio francese che è il contesto dal quale provengo: molti archeologi francesi sono eccellenti nel loro lavoro, in alcuni casi i migliori al mondo, ma sovente sono troppo focalizzati sul loro soggetto di studio principale e considerano gli apporti potenziali di altre discipline come poco utili alle loro ricerche. Il problema è quello di sviluppare l’interdisciplinarità. Ma sono scettico sulla creazione dell’interdisciplinarità per ordine di coloro che danno i fondi, dunque imposta. L’interdisciplinarità burocratica non è una cosa che funziona. Essa dovrebbe essere favorita da persone che nel loro percorso abbiano accumulato delle competenze diverse, archeologi che siano anche fisici, paleoantropologi che conoscano anche la scheggiatura della selce o geologi che siano anche microscopisti. L’importante è la curiosità propositiva di ogni ricercatore, la sua voglia di correre rischi e aprirsi a collaborazioni. Una certa apertura mentale e conoscenze che permettano di sapere cosa si possa chiedere agli altri, e la capacità di individuare i problemi che gli altri incontrano nella discussione e nell’interpretazione dei loro dati sono fondamentali
Olmo Viola