La cultura come barriera riproduttiva

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Sebbene ad un semplice sguardo le varie popolazioni umane potrebbero sembrare molto diverse tra loro, questa variabilità non sembra trovare riscontri all’interno del genoma. Se prendiamo, infatti, due esseri umani a caso e confrontiamo le loro sequenze di DNA, la differenza tra essi è molto più limitata rispetto ad un simile confronto condotto tra una qualsiasi altra coppia di primati della […]

Sebbene ad un semplice sguardo le varie popolazioni umane potrebbero sembrare molto diverse tra loro, questa variabilità non sembra trovare riscontri all’interno del genoma. Se prendiamo, infatti, due esseri umani a caso e confrontiamo le loro sequenze di DNA, la differenza tra essi è molto più limitata rispetto ad un simile confronto condotto tra una qualsiasi altra coppia di primati della medesima specie. A cosa è dovuta questa straordinaria omogeneità genetica della nostra specie? Fino ad oggi, molte spiegazioni si basavano sull’ipotesi che la nostra specie abbia attraversato, e superato, un drammatico episodio catastrofico (un evento del genere in genetica è chiamato “collo di bottiglia”) che ne decimò le popolazioni, con inevitabili conseguenze sulla perdita di variabilità genetica. In particolare, questo evento sarebbe avvenuto nel corso degli ultimi 100.000 anni e avrebbe ridotto la popolazione mondiale a soli 10.000 individui.

Studi più recenti, tuttavia, hanno sottolineato come questa bassa variabilità genetica sia tipica non solo della nostra specie, ma anche dell’uomo di Neanderthal e, probabilmente, anche dell’antenato comune alle due specie. Un simile scenario presupporrebbe l’azione di almeno tre colli di bottiglia nel recente passato del genere Homo, fatto che secondo molti paleoantropologi sarebbe piuttosto improbabile. E’ in questo contesto che si inserisce un nuovo ed interessante studio, pubblicato sulla rivista PNAS, che ha cercato di trovare una spiegazione di questa limitata variabilità genetica umana da un’altra parte. Secondo due antropologi del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology, tale situazione nella nostra specie sarebbe dovuta a fattori di carattere culturale, che avrebbero impedito, o comunque ridotto notevolmente, il flusso genico tra le diverse popolazioni. Questa ipotesi si basa sull’assunzione che, nel passato, la scelta del partner sociale e riproduttivo avveniva tra individui con un simile background culturale. L’utilizzo di determiati utensili e riti, le diverse abitudini alimentari e forse una forma rudimentale di linguaggio avrebbero dunque costituito una barriera culturale, che ha limitato il flusso di individui, e dunque di geni, tra i diversi gruppi umani.

Da una simulazione emerge, infatti, che la migrazione mediata dalla cultura (culturally mediated migration) è in grado di compensare la variabilità genetica acquisita da mutazioni neutrali per alcune migliaia di generazioni in assenza di variazione della dimensione complessiva della popolazione. Insomma, all’aumentare dell’omogeneità culturale decresce la variabilità genetica all’interno di gruppo di individui. Questa situazione avrebbe dunque incrementato il tasso di inincrocio all’interno delle popolazioni e favorito l’estizione locale di molte di esse: dalla sopravvivenza di pochi gruppi umani sarebbe dunque derivata l’intera popolazione mondiale odierna, dotata di una limitata variabilità genetica.

Un interessante scenario che potrebbe aver riguardato non solo l’uomo moderno, ma anche le popolazioni neanerthaliane e l’antenato comune alle due specie durante il Pleistocene Medio.

Andrea Romano


Riferimenti:
L. S. Premo, Jean-Jacques Hublin. Culture, population structure, and low genetic diversity in Pleistocene hominins, PNAS, Published online before print December 22, 2008.

Fonte dell’immagine: Wikimedia Commons