La cultura non si mangia…
Si deve sapere che gli scienziati non studiano la natura perché è utile. La studiano perché ne traggono piacere. E ne traggono piacere perché è bellissima.Ma non è bellissima soltanto perché ci mostra paesaggi meravigliosi, animali straordinari, cristalli luccicanti e coloratissimi, o profusioni di fiori e farfalle. È bellissima perché la natura ci sottopone un’inesauribile quantità di sfide.Fino a qualche […]
Si deve sapere che gli scienziati non studiano la natura perché è utile. La studiano perché ne traggono piacere. E ne traggono piacere perché è bellissima.
Ma non è bellissima soltanto perché ci mostra paesaggi meravigliosi, animali straordinari, cristalli luccicanti e coloratissimi, o profusioni di fiori e farfalle. È bellissima perché la natura ci sottopone un’inesauribile quantità di sfide.
Fino a qualche decennio fa, queste sfide potevano consistere soprattutto nell’esplorare territori ignoti, dove gli esploratori, che molto spesso erano scienziati, naturalisti e geografi, affrontavano i rischi di gravi malattie, popolazioni ostili, animali pericolosi, condizioni climatiche estreme. Gli esploratori hanno avuto un ruolo importantissimo nella conoscenza del mondo naturale, ed è per questo che l’Evolution Day di quest’anno è stato dedicato a loro.
Ma ancora oggi, che ogni chilometro quadrato delle terre emerse è stato raggiunto, esplorato o fotografato dai satelliti, il mondo naturale continua a proporre sempre nuove sfide di conoscenza. Come è sempre stato nella storia dell’uomo, specie animale dotata di un cervello particolarmente capace, le sfide che la natura ci sottopone sono soprattutto sfide di conoscenza.
L’uomo ha sempre avuto la propensione innata a conoscere quello che gli stava intorno. Senza questa propensione, l’uomo non potrebbe esistere: come avrebbe potuto sopravvivere l’uomo del paleolitico se non avesse posseduto una conoscenza sufficiente del suo ambiente, delle piante, degli animali? No, senza una conoscenza del mondo naturale, per quanto empirica e semplice, l’uomo non avrebbe mai potuto sopravvivere, perché non avrebbe potuto nemmeno procurasi da mangiare, non avrebbe saputo nemmeno scegliere un tipo di pietra adatto e scheggiarla per fabbricare un primitivo utensile, indispensabile a una specie priva di artigli e zanne, lenta nella corsa e fisicamente debole.
Naturalmente questo è vero anche oggi, perché anche tutte le nostre comodità moderne si basano sulla conoscenza.
Ma la consapevolezza dell’utilità pratica della conoscenza non basta, da sola, a suscitare la curiosità dell’uomo verso il mondo naturale. Per fortuna l’uomo possiede la spinta più formidabile di tutte verso la conoscenza della natura, che è la capacità di meravigliarsi e di gioire di fronte alle sue manifestazioni e alla sua bellezza.
Fatte queste considerazioni, chi potrebbe mai ragionevolmente sostenere, a parte qualche ministro, che la cultura (conoscenza, senso di meraviglia, curiosità, senso del bello) non si mangia?
A Milano ci sono sempre state persone amanti della conoscenza.
Per esempio, bisogna sapere che all’inizio della storia della scienza (di quella che chiamiamo scienza moderna, quella di Galileo Galilei, non quella dei filosofi greci), nel Seicento, viveva a Milano uno di questi personaggi. Si chiamava Manfredo Settala. Nacque nel 1600 e morì nel 1680. Era figlio di Ludovico Settala, il noto personaggio manzoniano, che nei Promessi Sposi viene citato soprattutto nel capitolo sulla peste.
Manfredo studiò in Toscana, alla scuola di Galilei, ma fu anche un viaggiatore, in particolare in Egitto e in Medio Oriente.
Galilei sosteneva che la conoscenza del mondo naturale non si raggiunge prestando fede all’autorità costituita (Aristotele, Galeno…), bensì attraverso le “sensate esperienze” (le osservazioni dei sensi, cioè gli esperimenti) e le “certe dimostrazioni” (quelle di tipo matematico).
Ebbene, il motto di Manfredo Settala era che “niuna cosa entra ad abitar nel palagio dell’intelletto che passata non sia per la porta necessaria dei sensi”. Cioè: soltanto l’osservazione sperimentale permette di far avanzare la scienza, mentre non bisogna fidarsi dell’autorità costituita.
Manfredo Settala era un prete, perciò poteva permettersi di vivere senza lavorare e aveva il tempo per dedicarsi alle attività che davvero lo appassionavano. Era il canonico della chiesa di San Nazaro, che si trova ancora in Corso di Porta Romana. Abitava nell’adiacente Via Pantano, dove costituì una sua personale collezione di meraviglie, nella tradizione delle Wunderkammern europee, raccogliendo oggetti di ogni tipo, tra i quali anche numerosissimi reperti naturali come animali impagliati, ossa, conchiglie, minerali, rocce, legni, coralli, ecc. C’era anche un meteorite recuperato dalla coscia di un frate, ucciso a Milano dalla caduta della “pietra del fulmine che uccise un frate zocholano”, come Settala stesso scrive.
Manfredo era anche un abile sperimentatore, che si costruiva da sé oggetti e marchingegni vari, utili a indagare le leggi della natura. Per esempio, era molto abile nella lavorazione del vetro e nella costruzione di lenti, con le quali fece svariati esperimenti di ottica.
Manfredo era in contatto con numerosi altri studiosi di tutta Europa, con i quali intratteneva una fitta corrispondenza. In una di queste lettere, scritta il 1° agosto 1667 a Henry Oldenburg della Royal Society di Londra (una delle società scientifiche più prestigiose del continente), Manfredo scrive, in un latino un po’ sgangherato: “… sub Mediolanensi coelo Pallas potius ut Bellona excolitur quam ut scientiae diva veneratur. Desunt naturalia profitentibus Maecenates, Magnatesque accumulandis opibus, non illustrandae naturae desudant. Sagatior non qui libros plurimos, sed libras innumeras congesserit.”
Tradotto, suona più o meno così: “… sotto il cielo di Milano Pallade è più onorata come dea della guerra che venerata come dea della scienza. Alle cose della natura mancano i mecenati, i potenti si affaticano ad accumulare ricchezze, non ad illustrare la natura. Più sagace non è chi abbia accumulato il maggior numero di libri, bensì moltissime libbre.”
Insomma, pare proprio che Manfredo si lamentasse della scarsissima considerazione che lo sviluppo della scienza aveva nella sua città. Ma quello era il Seicento, un secolo nel quale c’erano dominazioni straniere, calate di Lanzichenecchi, epidemie di peste. Naturalmente oggi, dopo quattro secoli, la situazione è molto diversa: non ci sono più dominazioni straniere, calate di Lanzichenecchi né epidemie di peste.
Dopo la morte di Manfredo la sua famosissima collezione (il Musaeum Septalianum) subì una storia travagliata e andò in gran parte dispersa, ma una parte degli oggetti esiste ancora oggi. Appartiene alla Biblioteca Ambrosiana, fondata dal cardinale Borromeo, amico di Manfredo. Gli oggetti naturalistici ancora esistenti della collezione Settala si trovano in deposito, cioè sono materialmente conservati, al Museo di Storia Naturale.
Altri milanesi che ebbero a cuore la conoscenza scientifica li troviamo nel XIX secolo. Nell’Ottocento, tra gli altri, vivevano a Milano due personaggi interessanti: Giorgio Jan e Giuseppe De Cristoforis.
Giorgio Jan era uno scienziato: botanico, mise insieme un erbario molto importante, mentre nella seconda parte della sua vita scientifica divenne uno dei maggiori esperti di serpenti al mondo, sui quali pubblicò un trattato illustrato da bellissimi disegni di questi animali.
Giuseppe De Cristoforis era un ricco milanese, di famiglia aristocratica, con la passione per le scienze naturali.
Giorgio Jan e Giuseppe De Cristoforis non furono soltanto dei cultori della scienza, ma anche uomini che desideravano mettere la loro cultura a disposizione di tutti. Per questo, donarono alla città di Milano le loro collezioni naturalistiche, che nel 1838 diventarono pubbliche, con l’atto ufficiale di fondazione del Museo di Storia Naturale, il più antico museo civico della nostra città. Jan ne fu il primo direttore.
E il Museo di Storia Naturale divenne ben presto un istituto di formazione superiore: nella seconda metà dell’Ottocento, molti degli scienziati che lavoravano nel Museo erano anche docenti del Politecnico. Erano le persone che istruivano la nuova classe dirigente e i nuovi scienziati.
Oggi il Museo di Storia Naturale ha sede in questo palazzo fatto costruire appositamente dal Comune di Milano per iniziativa dell’abate Antonio Stoppani. Ma nella seconda metà dell’Ottocento il museo aveva sede a Palazzo Dugnani, sull’altro lato dei Giardini Pubblici, adiacente alla Via Manin.
Proprio lì accanto, all’angolo con Piazza Cavour, c’è ancora oggi la Via del Vecchio Politecnico.
E questo è un periodo della storia di Milano in cui la città vedeva in azione, tra i propri cittadini ma anche tra i propri amministratori, numerosi personaggi che dedicarono la propria vita alla conoscenza.
Ma c’è anche una curiosità: a pochi passi da Piazza Cavour, al numero 21 di Via Bigli, si trovano ancora oggi due targhe ai lati del grande portone.
La prima ricorda che dal 1894 al 1900 in quella casa abitò con i suoi genitori il giovane Albert Einstein, dai 15 ai 21 anni di età, in quelli che lui ricordava tra gli anni più belli della sua vita. Tornò in quella casa per l’ultima volta nel 1902, alla morte del padre, tre anni prima della pubblicazione, nel 1905, dei lavori fondamentali che gli fruttarono un Nobel e la fama di scienziato tra i maggiori nella storia. Come tutti i grandi scienziati, come Galileo Galilei e Charles Darwin, Albert Einstein rovesciò le idee dominanti: fu, intellettualmente, un visionario e un rivoluzionario. Dopo di loro, ogni volta il mondo non fu più uguale a prima.
Possiamo immaginare il giovane Einstein mentre, adolescente curioso della natura, nell’età in cui si decideva quale sarebbe stato il suo percorso di vita, camminava per le vie di Milano e probabilmente ogni tanto visitava (si trovava a pochi passi da casa sua) il Museo di Storia Naturale. E la targa a lato del portone riporta la celebre equazione E = mc2.
La seconda targa della casa di Via Bigli 21 recita: “in questa casa dimorò trentasei anni e morì il 13 luglio 1886 la contessa Clara Maffei il cui salotto, abituale ritrovo di insigni personalità dell’arte, della letteratura e della musica fu pure, tra il 1850 e il 1859, cenacolo di ardenti patrioti tenaci assertori della indipendenza e della unità d’Italia”.
E molto si potrebbe raccontare, tanto per fare un esempio tra i molti possibili, di Emilio Cornalia, scienziato milanese e direttore del Museo dopo Giorgio Jan. Cornalia fu uno scienziato completo: paleontologo, zoologo, entomologo. Si occupò delle malattie del baco da seta (che dava da mangiare a tanti lombardi dell’epoca), condusse la prima perizia medico legale di tipo zoologico (contribuì a risolvere un caso di tentato omicidio riconoscendo i resti di un insetto velenoso nel vomito della vittima), descrisse una nuova specie di gatto selvatico sudamericano (Felis jacobita) e si recò in Africa settentrionale per recuperare i reperti naturalistici di Giovanni Miani, esploratore italiano morto nel corso di uno dei suoi viaggi (tra i “reperti” c’erano anche due sfortunati pigmei, che trascorsero il resto dei loro giorni a Verona).
Molte, moltissime, quasi innumerevoli sono le vicende scientifiche e umane che hanno fatto la storia del Museo di Storia Naturale di Milano.
Il periodo più difficile iniziò nell’agosto del 1943, quando i bombardamenti alleati lo distrussero, insieme con il Teatro alla Scala e la Pinacoteca di Brera. Il bombardamento fu mirato a colpire le istituzioni culturali di maggior prestigio della città, a dimostrazione del fatto che la cultura, artistica o scientifica che sia, è una sola ed è una delle cose più importanti per un popolo degno di questo nome.
Distruggere i simboli della cultura di un popolo significa distruggerne l’identità e piegarne la resistenza. E chi pianificava le incursioni aeree lo sapeva.
Sta forse avvenendo ancora?
Diffondere l’idea che “la cultura non si mangia” è meno dannoso che sganciare bombe incendiarie?
Somministrare a un intero popolo dosi massicce di volgarità non ha gli stessi effetti della distruzione del maggior teatro del mondo, di una grande pinacoteca e del più antico museo di una città?
Il Museo di Storia Naturale si risollevò grazie al lavoro energico e appassionato di Edgardo Moltoni, ornitologo e direttore dell’istituto per molti anni. Morì improvvisamente nel 1980, a ottantaquattro anni, mentre continuava a lavorare in Museo nonostante fosse già in pensione da molto tempo. Fu ritrovato riverso sulla sua scrivania.
La passione, l’entusiasmo e il senso di appartenenza al nostro istituto non sono morti con il prof. Moltoni e gli altri protagonisti della storia del Museo di Storia Naturale, ma sopravvivono in chi ne ha rilevato l’eredità culturale.
Secondo noi, quest’ultima potrà essere utile anche per affrontare con dignità il difficile periodo storico che stiamo vivendo.
Giorgio Bardelli