La Shark Week fa bene agli squali?
Uno studio ha analizzato 32 anni di episodi televisivi andati in onda durante la Shark week con l’obbiettivo di capire se questo speciale annuale dedicato agli squali abbia un effetto positivo o negativo sull’immagine che il grande pubblico ha di queste creature
Da 35 anni, ogni estate e più precisamente ogni luglio, per una settimana l’azienda Discovery communication (attualmente Warner Bros Discovery) mette in onda una serie di episodi televisivi incentrati sugli squali che prende il nome di Shark Week. La prossima Shark Week andrà in onda dall’23 al 30 luglio, e il “maestro di cerimonia” di questa edizione sarà l’attore Jason Momoa, l’Aquaman dei film Marvel.
Dalla prima edizione del 1988 gli spettatori si sono moltiplicati, raggiungendo nel 2020 i 21 milioni di persone, e la Shark Week è diventata nel tempo un evento mediatico di enorme importanza. Da una parte, i suoi sostenitori affermano che la Shark Week sia un importantissimo palcoscenico dove si racconta positivamente di squali e di ricerca, mentre dalla parte opposta i detrattori sostengono che le inesattezze scientifiche e la spettacolarizzazione trasmettano un’immagine negativa degli squali, con ricadute sulla loro salvaguardia e conservazione.
Data la risonanza di questo evento un team di ricercatori americani si è armato di telecomando e ha analizzato 32 anni di episodi andati in onda (1988-2020), per rispondere a una domanda che si fanno in molti: la Shark Week fa bene agli squali oppure no?
I ricercatori hanno valutato innanzitutto la positività o negatività del titolo di ogni episodio, sia tramite l’analisi delle singole parole che compongono il titolo sia tramite una valutazione del contesto nella quale vengono impiegate tali parole.
Poi, sono passati a visionare gli episodi disponibili, valutando molteplici aspetti come il contenuto dell’episodio, la veridicità e accuratezza delle informazioni, la professionalità dei conduttori e degli “esperti”, la multietnicità, l’equa rappresentazione dei sessi e le specie di squali nominate.
Un altro risultato incoraggiante è che quasi il 37 % degli episodi totali ha la ricerca come tema: questo sembra confutare le affermazioni di alcuni detrattori della Shark Week che dicono essere quasi totalmente incentrata su morsi e attacchi di squali.
Ma purtroppo i dati positivi finiscono qui.
Visionando gli episodi incentrati sulla ricerca risulta chiaro, infatti, come vengano mostrati soprattutto i metodi di ricerca spettacolari e all’avanguardia. Inoltre non si parla affatto di come viene effettivamente svolta la ricerca.
Quindi vediamo ricercatori che usano quasi sempre strumenti hi-tech come droni, telemetria satellitare, videocamere ad alta velocità, o ci viene solo detto genericamente che “i ricercatori hanno misurato che…”, sminuendo e censurando metodi di ricerca altrettanto validi e importanti ma meno adrenalinici.
Altra nota dolente proviene dai conduttori quasi totalmente maschi bianchi, nonostante le riprese in locations caratterizzate da etnie differenti e la presenza di un gran numero di scienziate e ricercatrici dedite alla ricerca e salvaguardia degli squali in tutto il mondo.
I cosiddetti “esperti”, poi, che appaiono nei vari episodi variano da scienziati con dottorati e più di 50 pubblicazioni accertate, passando per ricercatori di medio e piccolo calibro, fino ad arrivare a personaggi con nessuna apparizione nota sulle riviste scientifiche e addirittura in qualche caso l’abbreviazione “Dr.” aggiunta anche in assenza del grado accademico di dottore.
E questo bias per le specie più spettacolari, dicono gli autori, va di pari passo con quello che forse è il problema più grave.
Anche se nella parte terminale di molti episodi vengono riservate parole e contenuti positivi sugli squali, la maggior parte dell’episodio è invece incentrato su una narrazione tendenzialmente negativa con l’obbiettivo di mantenere incollato allo schermo lo spettatore con un contenuto adrenalinico, spettacolare e un linguaggio che aderisce all’immagine negativa degli squali come assassini, killer, macchine omicide e altri termini quasi hollywoodiani. Inoltre, mentre l’86% degli episodi inizia con lo scopo dichiarato di rispondere a una domanda o di risolvere un mistero legato al mondo degli squali, ben il 37% di questi episodi fallisce tali scopi, lasciando lo spettatore senza risposte chiare.
Gli autori dello studio sono consapevoli della difficoltà di conciliare la qualità del contenuto con l’attrattività del pacchetto proposto agli spettatori. Dopo tutto un episodio scientificamente corretto e con gran valore divulgativo non serve a nulla se attrae solo pochi spettatori.
I ricercatori concludono che, nonostante la Shark Week possa diventare un importantissimo strumento di sensibilizzazione e divulgazione scientifica con ricadute positive sulla salvaguardia degli squali, per ora, sia solamente una grandissima e spettacolare occasione persa. Ed a pagare il prezzo più grande sono proprio i suoi protagonisti.
Riferimenti:
Whitenack, Lisa B., et al. “A content analysis of 32 years of Shark Week documentaries.” PLOS ONE, vol. 17, no. 11, 3 Nov. 2022, p. e0256842, doi:10.1371/journal.pone.0256842.
Dalla prima edizione del 1988 gli spettatori si sono moltiplicati, raggiungendo nel 2020 i 21 milioni di persone, e la Shark Week è diventata nel tempo un evento mediatico di enorme importanza. Da una parte, i suoi sostenitori affermano che la Shark Week sia un importantissimo palcoscenico dove si racconta positivamente di squali e di ricerca, mentre dalla parte opposta i detrattori sostengono che le inesattezze scientifiche e la spettacolarizzazione trasmettano un’immagine negativa degli squali, con ricadute sulla loro salvaguardia e conservazione.
Data la risonanza di questo evento un team di ricercatori americani si è armato di telecomando e ha analizzato 32 anni di episodi andati in onda (1988-2020), per rispondere a una domanda che si fanno in molti: la Shark Week fa bene agli squali oppure no?
Come studiare la Shark Week
Lo studio, pubblicato lo scorso novembre sulla rivista scientifica Plos One, è tutt’altro che superficiale: un team di ricercatori provenienti da diversi campi e diverse università ha analizzato il titolo di tutti i 272 episodi trasmessi dal 1988 al 2020, e, a causa della irreperibilità del materiale video precedente al 1991, visionato per intero tutti gli episodi disponibili cioè ben 201.I ricercatori hanno valutato innanzitutto la positività o negatività del titolo di ogni episodio, sia tramite l’analisi delle singole parole che compongono il titolo sia tramite una valutazione del contesto nella quale vengono impiegate tali parole.
Poi, sono passati a visionare gli episodi disponibili, valutando molteplici aspetti come il contenuto dell’episodio, la veridicità e accuratezza delle informazioni, la professionalità dei conduttori e degli “esperti”, la multietnicità, l’equa rappresentazione dei sessi e le specie di squali nominate.
Gli scarsi progressi della Shark Week
Per quanto riguarda i titoli, gli scienziati hanno registrato come negli anni la forbice tra i titoli con connotazione negativa e il totale dei titoli, sia andata ampliandosi. I titoli che, per esempio, usano “mostro”, “attacco”, “terrore” sono quindi diminuiti, almeno relativamente al numero di episodi per ogni settimana, che invece è aumentato molto.Un altro risultato incoraggiante è che quasi il 37 % degli episodi totali ha la ricerca come tema: questo sembra confutare le affermazioni di alcuni detrattori della Shark Week che dicono essere quasi totalmente incentrata su morsi e attacchi di squali.
Ma purtroppo i dati positivi finiscono qui.
Visionando gli episodi incentrati sulla ricerca risulta chiaro, infatti, come vengano mostrati soprattutto i metodi di ricerca spettacolari e all’avanguardia. Inoltre non si parla affatto di come viene effettivamente svolta la ricerca.
Quindi vediamo ricercatori che usano quasi sempre strumenti hi-tech come droni, telemetria satellitare, videocamere ad alta velocità, o ci viene solo detto genericamente che “i ricercatori hanno misurato che…”, sminuendo e censurando metodi di ricerca altrettanto validi e importanti ma meno adrenalinici.
Altra nota dolente proviene dai conduttori quasi totalmente maschi bianchi, nonostante le riprese in locations caratterizzate da etnie differenti e la presenza di un gran numero di scienziate e ricercatrici dedite alla ricerca e salvaguardia degli squali in tutto il mondo.
I cosiddetti “esperti”, poi, che appaiono nei vari episodi variano da scienziati con dottorati e più di 50 pubblicazioni accertate, passando per ricercatori di medio e piccolo calibro, fino ad arrivare a personaggi con nessuna apparizione nota sulle riviste scientifiche e addirittura in qualche caso l’abbreviazione “Dr.” aggiunta anche in assenza del grado accademico di dottore.
Un problema per la conservazione
E per quanto riguarda gli squali? Come ci si poteva aspettare, la stragrande maggioranza degli episodi vede come protagoniste le specie più conosciute e spettacolari: lo squalo bianco, lo squalo tigre e lo squalo martello. Peccato però che le specie più citate non coincidano sempre con quelle maggiormente in pericolo secondo la IUCN (International Union for Conservation of Nature) specie che ovviamente trarrebbero grandi benefici da una buona copertura mediatica in ottica di aumento degli sforzi nella loro protezione.E questo bias per le specie più spettacolari, dicono gli autori, va di pari passo con quello che forse è il problema più grave.
Anche se nella parte terminale di molti episodi vengono riservate parole e contenuti positivi sugli squali, la maggior parte dell’episodio è invece incentrato su una narrazione tendenzialmente negativa con l’obbiettivo di mantenere incollato allo schermo lo spettatore con un contenuto adrenalinico, spettacolare e un linguaggio che aderisce all’immagine negativa degli squali come assassini, killer, macchine omicide e altri termini quasi hollywoodiani. Inoltre, mentre l’86% degli episodi inizia con lo scopo dichiarato di rispondere a una domanda o di risolvere un mistero legato al mondo degli squali, ben il 37% di questi episodi fallisce tali scopi, lasciando lo spettatore senza risposte chiare.
Gli autori dello studio sono consapevoli della difficoltà di conciliare la qualità del contenuto con l’attrattività del pacchetto proposto agli spettatori. Dopo tutto un episodio scientificamente corretto e con gran valore divulgativo non serve a nulla se attrae solo pochi spettatori.
I ricercatori concludono che, nonostante la Shark Week possa diventare un importantissimo strumento di sensibilizzazione e divulgazione scientifica con ricadute positive sulla salvaguardia degli squali, per ora, sia solamente una grandissima e spettacolare occasione persa. Ed a pagare il prezzo più grande sono proprio i suoi protagonisti.
Riferimenti:
Whitenack, Lisa B., et al. “A content analysis of 32 years of Shark Week documentaries.” PLOS ONE, vol. 17, no. 11, 3 Nov. 2022, p. e0256842, doi:10.1371/journal.pone.0256842.
Mi sono laureato in Biologia Evoluzionistica all’Università degli Studi di Padova. Ho scritto per OggiScienza e sono attivo nel campo della divulgazione scientifica. Ho creato e dirigo il progetto di divulgazione scientifica multipiattaforma “Just a Story”