Le culle africane dell’umanità: potrebbero essere più di una

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Una recente ipotesi sostiene che Homo sapiens è nato in Africa, ma dall’incontro di diverse popolazioni. Una volta usciti dall’Africa i sapiens si sono ibridati con altre varietà umane, come i Neanderthal, i Denisova e forse altre ancora. Queste nuove evidenze oggi a disposizione ci portano ad aggiornare le ipotesi evolutive sulle nostre origini

Secondo Chris Stringer, paleoantropologo inglese nel museo di storia naturale di Londra, non esiste una sola culla dell’umanità, perché secondo una recente ipotesi Homo sapiens è sì nato in Africa, ma dall’incontro reiterato di diverse popolazioni provenienti da regioni africane diverse. Una volta usciti dall’Africa i sapiens si sono ibridati con altre varietà umane, come i Neanderthal, i Denisova e forse altre ancora. Queste nuove evidenze oggi a disposizione ci portano ad aggiornare le ipotesi evolutive sulle nostre origini.


Fino a poco tempo fa eravamo convinti che la nostra specie fosse nata 200.000 anni fa nell’Africa orientale. L’anno scorso abbiamo scoperto, analizzando un cranio fossile, che Homo sapiens era presente in Marocco (a Jebel Irhoud) già 300.000 anni fa. Pensavamo anche che sapiens e Neanderthal fossero due specie ben distinte e che quindi non potessero accoppiarsi tra di loro. Tre anni fa, le analisi genetiche condotte su un fossile umano di circa 40.000 anni fa, ritrovato in Romania (a Peştera cu Oase, che significa “caverna con ossa”), hanno rivelato che quel sapiens aveva una percentuale di Dna Neanderthal più alta del solito, il che poteva significare solo una cosa: quell’individuo era bisnipote di un nonno (o nonna) Neanderthal vissuto dalle 4 alle 6 generazioni prima di lui.


Una scienza in divenire

La paleoantropologia è una scienza che naviga a vista: dalla terra ogni giorno potrebbe spuntare una nuova evidenza che costringe a rivedere le teorie fino ad allora considerate esatte. E in parte questo è quello che è successo negli ultimi anni.

Chris Stringer, paleoantropologo inglese che lavora all’Istituto di Archeologia di UCL (University College London) e al Dipartimento di Scienze della Terra, Vertebrati, Antropologia e Paleobiologia del Museo di Storia Naturale di Londra, ha da poco pubblicato un perspective paper su Science, con Julia Galway Witham, in cui fa il punto sulle ipotesi oggi sul tavolo relative alle nostre origini. Trent’anni fa circa la comunità scientifica era convinta di aver messo la parola fine a un dibattito che oggi Stringer prova a riaprire: le evidenze oggi a disposizione ci direbbero che le nostre origini non sono più così chiare come pensavamo.

Due ipotesi antagoniste

Negli anni ’80 circolavano due ipotesi antagoniste relativamente all’origine di Homo sapiens. La prima era quella delle Origini Africani Recenti (RAO, Recent African Origin) e sosteneva che tutti gli umani che abitano oggi la Terra fossero discendenti di un’unica antica popolazione vissuta in Africa (circa 60.000 anni fa) e da lì uscita per diffondersi su tutto il globo. La seconda era quella del Multiregionalismo, l’ipotesi secondo cui Homo sapiens era il discendente di diverse popolazioni vissute in Eurasia e in Africa nell’ultimo milione e mezzo di anni; a partire da tratti primitivi differenti, queste popolazioni sarebbero evolute in maniera convergente verso caratteristiche genetiche, morfologiche e comportamentali comuni, quelle osservabili nei sapiens moderni. “I Neanderthal vissuti in Europa secondo questa ipotesi sarebbero dovuti essere gli antenati dei sapiens europei; in Cina, il cosiddetto uomo di Pechino, un Homo erectus, sarebbe dovuto essere l’antenato dei moderni sapiens cinesi; l’uomo di Java, vissuto in Indonesia, l’antenato delle moderne popolazioni austronesiane; l’Homo erectus africano (oggi noto come ergaster, ndr) l’antenato dei moderni sapiens africani”. Altro punto cruciale dell’ipotesi multiregionalista, sottolinea Chris Stringer, è che queste popolazioni si scambiavano geni tra di loro, i loro individui si accoppiavano dando vita a prole fertile. Conseguenza di questa interfecondità è che secondo l’ipotesi multiregionalista dovrebbe essere esistita una sola specie umana nell’ultimo milione e mezzo di anni.


L’Eva mitocondriale

Nel 1987 una ricerca pubblicata su Nature stabilì che tutti gli esseri umani moderni hanno ereditato il loro Dna mitocondriale (il Dna presente non nel nucleo, ma nelle “batterie” delle nostre cellule, i mitocondri appunto) da un antenato femmina (rinominata “Eva mitocondriale”) che è vissuto in Africa negli ultimi 200.000 anni. “In seguito, altre prove si sono accumulate: i dati genetici provenienti dal cromosoma Y, quello ereditabile esclusivamente per via paterna, e successive analisi estese a tutto il genoma (e non solo a sue porzioni) hanno confermato le origini africane recenti; i fossili ritrovati in Africa e le loro datazioni puntavano nella medesima direzione”. Insomma, l’uomo moderno era 100% sapiens e africano.

Ibridazione

Fino a una decina di anni fa l’ipotesi secondo cui sapiens e Neanderthal potessero accoppiarsi tra di loro godeva di pochi sostenitori. Nel 2010 il laboratorio del Max Planck Institute di Antropologia Evoluzionistica di Lipsia guidato da Svante Pääbo ottiene la sequenza completa del Dna neanderthaliano e inizia a cercarne traccia in quello sapiens. E ne trova: “in tutti gli esseri umani che oggi vivono fuori dall’Africa è presente una piccola percentuale (tra il 2 e il 4%) di Dna neanderthaliano”. Si inizia a ipotizzare dunque che tra 40.000 e 60.000 anni fa sapiens e neanderthal si siano accoppiati, lasciando una discendenza.

Le nuove tecniche di analisi genomica poco dopo scoprono una popolazione diversa sia da sapiens sia da Neanderthal, ma imparentata strettamente con quest’ultimo, le cui tracce sono state ritrovate in una grotta siberiana da cui prende il nome: uomo di Denisova. Tracce del Dna del Denisova vengono trovate nel genoma degli umani moderni che vivono in Austronesia, Australia e Nuova Guinea. Queste popolazioni si sono accoppiati con i Denisova, gli europei con i Neanderthal. Due distinti episodi di ibridazione.

Quante specie umane

Secondo la definizione biologica di specie, due individui appartengono a specie diverse quando tra loro esiste una barriera riproduttiva, ovvero non riescono a dar vita a prole fertile. Il fatto che Homo sapiens, Neanderthal e Uomo di Denisova si siano accoppiati con successo tra loro mette in discussione o l’esistenza di specie umane diverse o l’utilità del concetto biologico di specie quando si parla di evoluzione umana.

“Guardando a cosa succede in specie non umane tra mammiferi e uccelli si nota che specie che si ritengono riproduttivamente isolate da almeno un milione di anni spesso restano in grado di scambiarsi Dna tramite occasionali riproduzioni incrociate” (in termini tecnici si chiama flusso genico tra popolazioni, gene flow). L’evoluzione del resto è un processo graduale, diceva Darwin, e la formazione di due specie distinte a partire dall’antenato comune richiede tempo. Inoltre il flusso genico è utile dal punto di vista adattativo perché permette di aumentare la diversità genetica della popolazione. Le stime attuali pongono attorno ai 5-600.000 anni fa la separazione tra la linea evolutiva dei sapiens e dei Neanderthal, “il che sarebbe compatibile con la possibilità di ibridazione tra le due varietà” conferma Chris Stringer.

La comunità di paleoantropologi è divisa tra i cosiddetti lumpers, quelli che tendono a ridurre al minimo il numero di specie nell’albero evolutivo umano, e gli splitters, quelli che invece tendono a riconoscere un alto numero di specie differenti. Non avendo a disposizione i dati genetici di specie molto antiche (oggi le analisi sul Dna antico riescono a lavorare con campioni non più vecchi di 400.000 anni circa) il dibattito è destinato a rimanere aperto. Chris Stringer oggi si pone a metà strada tra i due estremi: “noi e Neanderthal abbiamo avuto chiaramente tratti morfologici differenti, ma eravamo strettamente imparentati. Sono anche convinto che dovremmo essere flessibili nel annoverare nuovi esemplari fossili nella categoria Homo sapiens”.

Novità evolutive

Secondo Chris Stringer infatti le evidenze fossili provenienti dall’Africa ci mostrano che le caratteristiche che associamo all’Homo sapiens moderno non sono comparse tutte in una volta, in un’esplosione di novità evolutive. “I fossili di Jebel Irhoud in Marocco di 300.000 anni fa hanno tratti tipici di Homo sapiens, come alcuni aspetti della mandibola, dei denti e della faccia, ma la scatola cranica è più simile a quella delle varietà ancestrali, assomiglia a quella di Neanderthal e H. heidelbergensis, non ha ancora la forma globulare tipica dei sapiens moderni”. Questo ci dice che l’insieme degli aspetti tipici dei sapiens moderni non sono comparsi tutti insieme, ma piuttosto tramite un’evoluzione graduale. “30 anni fa avevo una visione puntuazionista riguardo all’evoluzione dei tratti che associamo all’Homo sapiens moderno. Le evidenze oggi a disposizione ci mostrano che non ci fu un’evoluzione puntuata delle caratteristiche umane”. Secondo la teoria degli equilibri punteggiati (formulata per la prima volta da Stephen Jay Gould e Niles Eldredge all’inizio degli anni ’70) il processo di formazione di nuove specie può avvenire anche molto velocemente, con un’esplosione evolutiva di tratti concentrata in un periodo di tempo relativamente ristretto, seguito da una lunga stasi evolutiva in cui la specie conserva le caratteristiche vantaggiose acquisite. Questo modello speciativo di fatto si realizza in diverse specie in natura, ma secondo Chris Stringer, contrariamente a quello che pensava poche decine di anni fa, non è più applicabile all’evoluzione di Homo sapiens. “Le caratteristiche moderne di Homo sapiens non sono comparse tutte in una volta, ma gradualmente, in Africa”.

Due nuove ipotesi antagoniste

Lo scenario delineato secondo Chris Stringer ci deve dunque portare ad aggiornare le due vecchie ipotesi sulle nostre origini, riproponendole con alcune varianti. La prima ipotesi diventa Origini Africani Recenti con Ibridazione (Recent African Origin with Hybridization): le origini africane recenti restano il perno di quest’ipotesi, ma quando i sapiens moderni sono usciti dall’Africa si sono ibridati con altre popolazioni non sapiens (Neanderthal, Denisova e forse altre), incorporando il loro Dna nel corredo genetico oggi osservabile negli umani moderni. Questi episodi di ibridazione ad ogni modo non sarebbero stati la norma, ma piuttosto l’eccezione. L’uomo moderno è 100% africano, non 100% sapiens, ma lo è comunque più del 90%. “Questa è l’ipotesi che al momento, date le evidenze disponibili, mi sentirei di supportare maggiormente”.

La seconda ipotesi, quella un tempo definita multiregionalista, diventa invece il Modello dell’Assimilazione (Assimilation Model) e differisce dalla prima ipotesi per una serie di aspetti cruciali: per la quantità, maggiore, di eventi di ibridazione predetti; quindi per la quantità di flusso genico tra popolazioni sapiens e popolazioni locali euroasiatiche che i sapiens usciti dall’Africa avrebbero incontrato; per la gradualità, maggiore, del processo di cambiamento evolutivo; per il numero, maggiore, di tratti “moderni” che sono comparsi in seguito a questi frequenti eventi di ibridazione.

“Oggi abbiamo a disposizione una mezza dozzina di genomi appartenenti a Neanderthal, vissuti in Europa Occidentale circa 50.000 anni fa, e contrariamente a quanto predetto dal Modello dell’Assimilazione nessuno di quei genomi mostra segni significativi di ibridazione con il corredo genetico dei sapiens”. È tuttavia possibile che nuovi reperti, asiatici ad esempio, in futuro mostreranno maggiore segno di ibridazione; alcune moderne popolazioni austronesiane contengono una percentuale di Dna denisovano maggiore rispetto a quello neanderthaliano presente negli europei moderni. Sappiamo anche che alcune delle porzioni di Dna che abbiamo ereditato dai Neanderthal oggi giocano un ruolo importante nel nostro sistema immunitario e che dunque è possibile che gli eventi di ibridazioni abbiano generato importanti novità evolutive.

In definitiva le due nuove ipotesi (varianti delle due vecchie ipotesi) differiscono per la quantità di ibridazione tra varietà umane e per l’impatto che questa ibridazione può avere avuto sulla comparsa di tratti evolutivi associati all’uomo moderno. L’Origine Africana Recente con Ibridazione predice che l’ibridazione è stata l’eccezione e non la norma e che i tratti umani moderni sono evoluti in Africa (ammettendo gradualità); il Modello dell’Assimilazione predice che l’ibridazione tra varianti umane è stata consistente e che molti tratti umani moderni sono il risultato di questo graduale processo di mescolamento avvenuto fuori dall’Africa.

“Al momento nessuna delle due ipotesi combacia perfettamente con tutte le evidenze che abbiamo a disposizione. È anche possibile che tra 5 anni la situazione diventi ancora più complicata, abbiamo bisogno di nuovi dati”.

In entrambe le nuove ipotesi di lavoro le origini africane restano un punto fermo. Il Modello dell’Assimilazione non ripropone quello multiregionalista, il quale sosteneva che l’origine di Homo sapiens fosse spalmata su scala globale. L’assimilazione è un processo diverso dall’origine multiregionale. La scelta di provare a riportare in auge un termine, il multiregionalismo, che gode di cattiva fama tra la maggioranza degli antropologi potrebbe risultare discutibile, se non fosse che Stringer afferma esplicitamente che qualcosa di simile a un processo di origine multiregionale possa essere avvenuto gradualmente in Africa.


Multiregionalismo africano

Sebbene Stringer dichiari di essere propenso a supportare la prima ipotesi, quella di un’ Origine Africana Recente con Ibridazione, in un recente paper pubblicato su Trends in Ecology and Evolution firmato con altri autorevoli colleghi, Stringer sostiene che lo scenario dell’origine multiregionalista di Homo sapiens può funzionare se applicato all’interno dei confini dell’Africa. Oltre ai campioni di sapiens a Jebel Ihroud, la terra ha restituito fossili umani in Africa Orientale e in Sud Africa; ciascuno presenta pezzi diversi di un mosaico di tratti umani moderni (come una faccia “piatta” rispetto ai cugini primati, zigomi meno prominenti, denti più piccoli, cranio globulare). L’Africa nelle ultime centinaia di migliaia di anni è stata soggetta a un clima molto variabile, è stata abitata da popolazioni diverse, portatrici di tratti morfologici, comportamentali e culturali diversi tra loro. Alcuni di questi gruppi si sono incontrati, hanno mescolato il loro Dna e le loro culture e si sono separati nuovamente, con una frequenza che Chris Stringer stima essere avvenuta ogni 20-40.000 anni circa. Secondo questo scenario l’Homo sapiens moderno sarebbe figlio di molte popolazioni sapiens africane che un tempo avevano solo alcuni dei tratti (genetici, morfologici, comportamentali e culturali) che oggi definiamo moderni; tramite un lungo e graduale mescolamento evolutivo le popolazioni sapiens africane avrebbero evoluto l’intero pacchetto di tratti moderni che oggi osserviamo. “Non possiamo escludere che sia avvenuta ibridazione tra sapiens moderni e sapiens arcaici, o con Homo heidelbergensis, o addirittura con Homo naledi. Ma ovviamente non disponiamo dei genomi di queste antiche popolazioni. Un giorno potremo avere un quadro più chiaro delle nostre origini, sarà uno scenario molto complesso”.

In linea di principio il fatto che il pacchetto dei tratti del sapiens moderno sia evoluto gradualmente in popolazioni diverse non è necessariamente in contrasto con il fatto che, diciamo 60.000 anni fa, una di queste popolazioni “moderne” sia uscita dall’Africa e si sia diffusa in tutto il globo. Potrebbe anche essere che le uscite dall’Africa siano state molteplici e continuative, piuttosto che quantizzate. Chris Stringer un’idea ce l’ha: “sono convinto che non esista una singola culla delle origini dell’umanità. In Africa l’uomo moderno è nato da diverse popolazioni che si sono scambiate geni e culture. È un momento straordinario per lavorare in questo campo, ho imparato ad aspettarmi l’imprevedibile, e a mantenere la mente aperta a ogni possibilità. Il lavoro dello scienziato in fondo è quello di proporre idee nuove ma anche di modificare alcune di quelle idee quando i dati lo richiedono. È quello che sto tentando di fare, è un lavoro complicato perché le cose cambiano molto in fretta, ma è anche questo il bello”.

Da La Mela di Newton