Le mutazioni che misurano il cammino dell’uomo
La quantità di mutazioni leggermente dannose diventate ormai naturali all’interno del DNA di alcune popolazioni sarebbe proporzionale alla distanza percorsa da Homo sapiens per raggiungere quel luogo durante le sue migrazioni
Antropologi e paleontologi dedicano molti sforzi a ricostruire il percorso di Homo sapiens, non solo dal punto di vista evolutivo, ma anche nel suo più stretto senso geografico. È sempre più accettata, in tal senso, la teoria Out of Africa (Fuori dall’Africa), secondo la quale i nostri primi antenati si sarebbero originati in qualche altopiano dell’Africa centrale e da lì, lentamente e nel corso di decine di migliaia di anni, si sarebbero diffusi prima nel continente, poi in Asia e in Australia, quindi in Europa a alla fine nelle Americhe, attraverso lo stretto di Bering (un bel video illustrativo è stato segnalato da Pikaia qui).
Nel tempo, le evidenze a supporto di questa ipotesi sono cresciute sempre più, basate sia sulle datazioni dei resti di H. sapiens ritrovati nelle varie zone del pianeta, sia su analisi genetiche condotte in particolare sul DNA mitocondriale, che analizzano la differenza di mutazioni accumulate dalle varie popolazioni. I percorsi precisi, e le date delle varie “tappe”, tuttavia, sono ancora da scoprire e definire (Pikaia ne ha parlato, ad esempio, qui).
È proprio sul fronte genetico che arriva un nuovo studio che potrebbe aiutare a delineare con più precisione le vie percorse durante le migrazioni. Alcuni ricercatori dello Swiss Institute of Bioinformatics hanno supposto che, nei piccoli gruppi che si separavano dalle famiglie di origine per esplorare e insediarsi in territori mai raggiunti prima da H. sapiens, si siano moltiplicate e conservate alcune mutazioni genetiche, leggermente dannose. Il numero ristretto di individui che componevano tali tribù ha permesso a queste mutazioni – non sufficientemente gravi da impedire la riproduzione e la sopravvivenza dei gruppi – di resistere alla selezione naturale e di diventare, con il tempo, normali e non eccezionali all’interno del DNA degli individui della popolazione in questione.
Secondo questa idea, maggiore è la distanza che le popolazioni avrebbero percorso allontanandosi dalla loro zona d’origine, maggiore dovrebbe essere il numero delle mutazioni di questo tipo che permangono nelle varie popolazioni del mondo. Per trovare una conferma, i ricercatori hanno, attraverso una tecnologia di sequenziamento del DNA di nuova generazione, ottenuto i dati genetici di numerosi individui da alcune popolazioni sufficientemente stanziali in diverse parti del mondo (Repubblica Democratica del Congo, Namibia, Algeria, Pakistan, Cambogia, Siberia e Messico). Hanno quindi creato un modello di distribuzione spaziale delle mutazioni genetiche che si sarebbero sviluppate e diffuse nel tempo nelle varie aree del pianeta e hanno incrociato i dati di questa simulazione con quelli ottenuti sul campo.
I risultati ottenuti mostrano un’elevata correlazione tra i valori previsti e quelli sperimentali, mostrando un numero di mutazioni notevolmente più alto negli individui messicani rispetto a quelli del “vecchio mondo”, con un minimo negli individui congolesi e namibiani, confermando la validità della tesi e, di conseguenza, aggiungendo una nuova evidenza alla solidità dell’ipotesi dell’Out of Africa. Non varia con lo spazio, invece, l’incidenza di mutazioni gravi, che sono state ritrovate con la stessa frequenza in tutti gli individui nelle varie zone del mondo. Evidentemente e comprensibilmente, il limite di mutazioni minori che un individuo e una popolazione può sopportare è di gran lunga maggiore a quello di mutazioni più importanti.
Aggiungendo un piccolo mattoncino nella ricostruzione del più lontano passato di H. sapiens, questo studio mostra come il lunghissimo cammino che hanno fatto i nostri antenati decine di migliaia di anni fa lasci in noi ancora una indelebile traccia e abbia contribuito a generare quella ricca diversità di individui che compone la nostra specie.
Riferimento:
Distance from sub-Saharan Africa predicts mutational load in diverse human genomes. Proceedings of the National Academy of Sciences, 2015; 201510805 DOI:10.1073/pnas.1510805112
Immagine:
By Ephert (Own work) [CC BY-SA 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons
Nel tempo, le evidenze a supporto di questa ipotesi sono cresciute sempre più, basate sia sulle datazioni dei resti di H. sapiens ritrovati nelle varie zone del pianeta, sia su analisi genetiche condotte in particolare sul DNA mitocondriale, che analizzano la differenza di mutazioni accumulate dalle varie popolazioni. I percorsi precisi, e le date delle varie “tappe”, tuttavia, sono ancora da scoprire e definire (Pikaia ne ha parlato, ad esempio, qui).
È proprio sul fronte genetico che arriva un nuovo studio che potrebbe aiutare a delineare con più precisione le vie percorse durante le migrazioni. Alcuni ricercatori dello Swiss Institute of Bioinformatics hanno supposto che, nei piccoli gruppi che si separavano dalle famiglie di origine per esplorare e insediarsi in territori mai raggiunti prima da H. sapiens, si siano moltiplicate e conservate alcune mutazioni genetiche, leggermente dannose. Il numero ristretto di individui che componevano tali tribù ha permesso a queste mutazioni – non sufficientemente gravi da impedire la riproduzione e la sopravvivenza dei gruppi – di resistere alla selezione naturale e di diventare, con il tempo, normali e non eccezionali all’interno del DNA degli individui della popolazione in questione.
Secondo questa idea, maggiore è la distanza che le popolazioni avrebbero percorso allontanandosi dalla loro zona d’origine, maggiore dovrebbe essere il numero delle mutazioni di questo tipo che permangono nelle varie popolazioni del mondo. Per trovare una conferma, i ricercatori hanno, attraverso una tecnologia di sequenziamento del DNA di nuova generazione, ottenuto i dati genetici di numerosi individui da alcune popolazioni sufficientemente stanziali in diverse parti del mondo (Repubblica Democratica del Congo, Namibia, Algeria, Pakistan, Cambogia, Siberia e Messico). Hanno quindi creato un modello di distribuzione spaziale delle mutazioni genetiche che si sarebbero sviluppate e diffuse nel tempo nelle varie aree del pianeta e hanno incrociato i dati di questa simulazione con quelli ottenuti sul campo.
I risultati ottenuti mostrano un’elevata correlazione tra i valori previsti e quelli sperimentali, mostrando un numero di mutazioni notevolmente più alto negli individui messicani rispetto a quelli del “vecchio mondo”, con un minimo negli individui congolesi e namibiani, confermando la validità della tesi e, di conseguenza, aggiungendo una nuova evidenza alla solidità dell’ipotesi dell’Out of Africa. Non varia con lo spazio, invece, l’incidenza di mutazioni gravi, che sono state ritrovate con la stessa frequenza in tutti gli individui nelle varie zone del mondo. Evidentemente e comprensibilmente, il limite di mutazioni minori che un individuo e una popolazione può sopportare è di gran lunga maggiore a quello di mutazioni più importanti.
Aggiungendo un piccolo mattoncino nella ricostruzione del più lontano passato di H. sapiens, questo studio mostra come il lunghissimo cammino che hanno fatto i nostri antenati decine di migliaia di anni fa lasci in noi ancora una indelebile traccia e abbia contribuito a generare quella ricca diversità di individui che compone la nostra specie.
Riferimento:
Distance from sub-Saharan Africa predicts mutational load in diverse human genomes. Proceedings of the National Academy of Sciences, 2015; 201510805 DOI:10.1073/pnas.1510805112
Immagine:
By Ephert (Own work) [CC BY-SA 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons